Abbiamo intravisto la dorata moschea di Al Aqsa, da un balcone che portava al Muro del Pianto. Orde di fedeli scendevano l'angusta scala per il Santo Sepolcro, commossi. La palestra del Talpaz Judo Team in cui ci allenavamo tutti i giorni, buia e fresca, permeata dall'odore dei tatami, ricordo che è stata la prima volta che ho fatto zazen. Ho ancora delle facce, ma più nessun'nome: il campione, categoria 65kg, appena tornato dai duri anni di servizio militare (e tutti dicevano, comprensivi: "ora vuole solo divertirsi"). Il Maestro ricciolo e tozzo con i piccoli occhiali rotondi, chissà come era diventato amico del mio Maestro? E il ragazzino ebreo che ci invitò a cena, era cintura blu: mio padre mi aveva dato delle bottiglie di vino italiano da regalare ai miei ospiti, piacquero molto. Quella sera mi hanno dato un kippah e ho osservato una cerimonia religiosa con del sale. Quando mi chiesero se ero cattolico risposi di no, che ero ateo; penso non abbiano capito.
Per molti giorni mi sono confrontato con loro in un modo speciale, profondo e che travalica le culture: lo Shiai. Lo Shiai è lo scontro di judo, 100% della forza, obiettivo vittoria.
Quello che ho pensato degli israeliani che ho conosciuto è che sono soprattutto ostinati. Non con la finezza tecnica o con la rapidità cercavano di sottomettermi, ma con una dura ostinazione, i muscoli sempre tesi. Sono stati degli ospiti splendidi: gentili e ospitali.
Ora mi si presenta una nuova opportunità: tornare e osservare tutto dall'altra parte. Allora parlavo Judo, con i palestinesi parlerò Parkour. Avrò nuovamente uno strumento di confronto capace di travalicare le culture, che in poco tempo può darmi un' idea di come sono le persone. Forse...
Sono carico di ansia, la situazione in questo momento non è delle migliori, Gaza è stata praticamente rasa al suolo dagli ultimi bombardamenti di quest'estate, i visti vengono concessi raramente e hanno appena sparato ad un attivista italiano. Temo anche (soprattutto, per la verità), di trovare una comunità di parkouristi superficiali nella loro pratica. Temo di non sapere come parlare con loro, correndo il rischio di entrare in una logica coloniale se forzo la mano sul concetto più profondo di parkour. Temo di perdere di vista la condizione umana e politica generale focalizzandomi solo su un dettaglio come può essere percepito il parkour quando la gente vive in stato di guerra. Mi sembra di avere sempre bisogno di un mediatore culturale che mi consigli.. non so quanto devo/posso essere il me stesso "rigido traceur", forse ridicolo in un contesto di quel tipo. Il confronto tra due persone deve avvenire in sincerità totale o attraverso ragionate mediazioni? Chi è a casa sua ha il privilegio di essere il principale attore dello scambio culturale? Chi è ospite dovrebbe essere "tazza vuota", pronto ad assorbire? Facile quando si parla di cultura occidentale dominante, mi è sempre sembrato facile metterla da parte quando viaggio nelle giungle. Ma se viene il turno della mia personale cultura parkouristica? quella che ho così orgogliosamente difeso per anni? Sono capace di metterla da parte? O sono comunque convinto di essere nel giusto? Se ai bimbiminchia si sotituiscono degli uomini palestinesi temprati dalle avversità? Forse non sono mai stato capace di mettere da parte la mia cultura occidentale davvero, se non sono capace di mettere da parte l'approccio colonialista, arrogante, di chi è convinto di avere ragione. Cazzo ma qui in Italia io sono convinto di avere ragione, perchè dovrebbe cambiare il ragionamento se cambia il contesto? E se poi il contesto mi cambia il ragionamento, che ne sarà della mia visione del parkour quando ritorno?
A complicare le cose due questioni. Uno, l'esperienza di qualche anno fa con i ragazzi di Gaza Parkour in Italia, così ben narrata dal corto documentario di Zambe et al. In quel caso mi sono fatto forte dell'essere a casa e ho cercato di passare la mia idea di parkour. Con questo abbiamo creato un precedente e forse prodotto dei risultati che, a distanza di 3 anni, potrò valutare in loco. Ma potrei anche accorgermi che il messaggio in realtà è scivolato sopra le nostre teste, confermando amaramente quanto illusoria sia la comprensione tra culture diverse.
Due. Questa carovana, organizzata dal centro VIK, mi porta in Gaza con il gravosissimo titolo di "formatore". Già dal significato della parola si capisce quanto questo dettaglio rischi di stravolgere tutto il precedente discorso delirante, facendomi irrimediabilmente scivolare verso la sicura rocca di ghiaccio della mia occidentalià scientifica.
In realtà c'è un' altra questione, ancora più grande e per questo così orrendamente difficile da vedere, comprendere e, soprattutto, trattare. Quanto questa delegazione ed il suo significato verranno stravolti e strumentalizzati dai grandi attori politici? Quali vincoli e/o pressioni riceveremo dall'esercito israeliano e da Hamas? Saremo sottoposti alle leggi della nostra coscienza o a quelle coraniche? Logica vuole che paese che vai, leggi che trovi. Facile accettare questo semplice teorema fintanto che si viaggia in europa, o anche in paesi tranquilli come l'indonesia, per esempio. Quando invece ci si insinua tra due enormi superfici in attrito, tutto diviene meno scontato e più angosciante. Le donne di Gaza non praticano parkour (non possono nemmeno abortire, tra l'altro). Come mi pongo io di fronte a questi temi? Come tazza vuota o come formica orgogliosa?
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