Questa alterità pone il problema dell'autore.
Nell'immagine tradizionale qualsiasi sgorbio di bambino suscita l'ammirazione familiare perché si è consapevoli che proprio lui lo ha reso visibile, con le sue manine e il suo impegno psicofisico, usando in ogni modo le superfici e gli strumenti disponibili, anche in modi non convenzionali e perseguibili dai regolamenti di convivenza stabiliti dai genitori.
Dando invece ad un bambino una fotocamera dove debba solo premere il famoso pulsante, ecco che tutto si concentra in un'attività performativa dove il corpo e in particolare l'occhio sono impegnati nell'osservare quello che sta intorno, o anche solo nel premere a casaccio. Statistica vuole che comunque qualche immagine interessante venga fuori. Eppure l'autore è sempre il bambino.
Un autorialità di tipo diverso da quella tradizionale. Basata sul rapporto diretto con il visibile, dal quale verranno fuori immagini come tracce, sedimenti di esperienze non necessariamente definite e finite.
Una fotografia ha quindi sempre anch'essa un autore alla sua origine e come tale egli non va mai dimenticato. Non esistono "fotografie di tutti", che in Italia equivale a "di nessuno". Le fotografie per quanto nate da un congegno, persino in assenza diretta dell'umano che lo ha predisposto al funzionamento, sono parti di altri umani. Come non useremmo per i nostri comodi il braccio di qualcuno, senza chiedergli il permesso, anzi ignorandolo proprio, così mettersi a usare le fotografie altrui, pescate chissà come e dove, è un atto incivile e riprovevole. La sensibilità del nostro tempo è ancora barbarica su questo punto, fino a sostenere l'assurdo che una fotografia sia di chi la guarda, ma se vi sarà ancora tempo per l'umanità, spero che si arrivi a comprenderlo, prima o poi.