PRIMAL FEAR – Delivering The Black (Frontiers Records)

Creato il 07 febbraio 2014 da Cicciorusso

Penso ai Primal Fear e mi viene in mente la Volkswagen. Non è che posso farci nulla, amici, è così. Adesso sicuramente ci sarà chi tra di voi preferisce, che ne so, le Alfa. Oppure le Fiat (adesso F.C.A. per gli amici. Ma che bell’acronimo, vero?), oppure francesi, spagnole, svedesi, altre tedesche, magari di lusso, giapponesi. Io stesso non è che abbia un’affezione particolare per le Volkswagen. Manco per il Maggiolino, che per la verità m’ha sempre fatto discretamente cagare.

Però, se ci pensate un attimo, la Volkswagen ha fatto fortuna nel mondo (specie tra quei coattoni degli americani, insieme alle giapponesi) grazie a due caratteristiche fondamentali dei loro modelli: robustezza e affidabilità teutonica. Certo, noialtri spaccavamo parecchio di più sui motori, per dire, poi però ci fregava la dannata ruggine che si mangiava la carrozzeria anche solo lavando la macchina troppe volte. Oppure lasciandoci senza sospensioni se pioveva troppo, che per carità la macchina ad andare andava e pure forte, solo che dove pareva a lei, col risultato che probabilmente una certa generazione di italiani in media o s’è sfrociata facendosi tanto male oppure adesso guida tanto tanto meglio dei corrispettivi tedeschi. Chiamiamoli effetti collaterali della gestione Agnelli. Ma comunque, dicevamo?

Ah sì, robustezza e affidabilità. Teutoniche. Ecco, i Primal Fear sono la Volkswagen del metal. Più di altri gruppi tedeschi, anche assai più blasonati tipo i Blind Guardian (Audi), oppure i Gamma Ray (Mercedes) o che ne so. Sono l’epitome del metal crucco come la Volkswagen lo è delle autovetture, e non c’è un cazzo di nulla da fare. Se entrate in una Volkswagen, quale che sia il modello a parte forse quell’aborto di Up, aprendo e chiudendo lo sportello immancabilmente vi coglierà quella certa sensazione di solidità data dal “thump” ovattato che vi accompagnerà alla chiusura dell’abitacolo, e di sicuro penserete, pure se le Volkswagen vi fanno cagare e state salendo sulla macchina di qualcun altro che, cazzo, comunque bello peso lo sportello, eh?

Ecco. Mettete nel lettore un qualsiasi cd dei Primal Fear, ne hanno tirati fuori una decina compreso quest’ultimo, e, pure se il metal crucco non vi piace per nulla, o comunque non vi piace il metal più classico, all’attacco della prima traccia penserete inesorabilmente  una roba tipo “ah cazzo, quadrati questi!” salvo poi cambiare cd e magari mettere Toto Cutugno o Laura Pausini. O gli Slayer, come meglio preferite. Ma anche no.

Quello che voglio dire è che nel corso della carriera i Primal Fear avranno sicuramente avuto alti e bassi, ma di media hanno sempre ortodossamente divelto ani con, guarda un po’, robustezza ed affidabilità teutonicissime. Adesso poi che da un paio d’anni è entrato in formazione Alex Beyrodt alla seconda chitarra (da tempo sodale dello stesso Matt Sinner nei Sinner e chitarrista con i Silent Force), il suono dei nostri si è ulteriormente ispessito, così come la qualità media delle composizioni e del lavoro delle chitarre. Non a caso, questo Delivering The Black spacca dall’inizio alla fine, con l’apice in One Night In December, composizione lunghetta e tosta a dovere con l’ormai immancabile orchestra a supporto e un ritornello dove il nostro vecchio Ralph Scheepers da il meglio di sè.

In ogni caso, tutto l’album spacca, dalle varie cadenzate classicamente Primal Fear tipo Alive & On Fire e King For A Day, passando per le bordate Rebel Faction e Inseminoid (quest’ultima con uno Scheepers da urlo), fino a Born With A Broken Heart, immancabile ballata per duri di cuore, e manco tanto a giudicare dal titolo.

Vabbè, vi fanno cagare le Golf. Lo capisco, ci sta. Ripeto, non vado pazzo per le Volkswagen manco io. Però l’ultimo dei Primal Fear procuratevelo e, se magari vi capiterà di ascoltarlo tra Toto Cutugno e la Pausini, per tutto il tempo la vostra amata Pandina vi sembrerà non già una Polo, ma un panzer tedesco della seconda guerra mondiale. E ditemi voi se non ne vale forse la pena. (Cesare Carrozzi)



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