Se l'incostanza e l'incoerenza etica dei genitori e della loro educazione - soprattutto in quel confine delicato tra morale pubblica e interessi particolari - è ormai un topos della cultura contemporanea, sarà anche perché la realtà sembra andare in questa direzione. Ma Prime mi sembra andare oltre: nel film, Ben Younger (regista e sceneggiatore) esibisce le ragioni come se fossero alibi, ponendoli sullo stesso piano, dando loro la stessa dignità.
Nella tensione corrosiva tipica del cinema americano, la cultura ebraica viene ritratta in modo imbarazzante, come sempre accade quando, alle normali preoccupazioni (in questo caso, genitoriali), si vuol associare un'identità etnica: retrogradi, interessati, ricchissimi e insensibili al bene altrui. Non conosco la realtà ebraica americana, per cui non entro nel merito della condivisibilità di quest'opinione, il punto è che non mi sembra neanche un'opinione, ma un mero declinare cliché - e credo si capisca bene, già dall'esergo di questo blog, che io detesto le semplificazioni (esattamente come l'olocausto come passaporto obbligato per avvicinare la cultura ebraica, invece del normale rispetto interculturale).
In Prime non c'è cultura, non c'è solo una gran confusione di sentimenti, che non vengono neanche analizzati; non c'è neanche l'atteso parlare d'amore, non c'è una crescita del personaggio principale, David, sempre in vetrina per il suo fisico e la sua spontanea simpatia. Spiace pure che un'attrice come Meryl Streep, così portata per la dimensione comica e leggera, anzi forse ancora più a suo agio in ruoli più aerei, sia coinvolta in una commediola che ha pure qualche merito registico (certe inquadrature silenziose sono efficaci e divertentissime), ma una scrittura così scadente, difficilmente rubricabile oltre la categoria di evasione usa-e-getta.