Suo padre se l’era portato via la malaria.E non era stata una cosa rapida. Né indolore.Adesso c’era zio Renzo, a pensare a lui. La vegetazione palustre della Diaccia che abbracciava il limitare della boscaglia mentre il latrato dei cani da caccia convergeva verso il loro appostamento. E lui, stringendo il suo primo schioppo tra le dita sottili, l’uniforme lastra grigia di un’alba radiosa sulla testa, aspettava ginocchioni senza fiatare.Quando il latrato si fece vicino, zio Renzo, alle sue spalle, lo toccò piano sussurrandogli nell’orecchio la parola «ora!». E il suo cuore fibrillò per un secondo.Poi, in un frenetico scalpitare, la sterpaglia sembrò fendersi e animarsi, e, tutt’a un tratto, il cinghiale arrivò. Non prima, non dopo, semplicemente fu lì. Sfilò fulmineo tra le commessure degli alberi, grufolando impazzito come la creatura emersa da un sogno all’incontrario, la scomposta muta dei cani che gli zavorrava le calcagna.La bestia si arrestò per un secondo, maestosa, voltandosi a ruggire il suo disappunto agli inseguitori, il respiro che gli si condensava tra le fauci indomite prima di rimettersi in fuga. Di nuovo suo zio Renzo lo incitò: «ora!», proferì aspro, e lui, sollevandosi dall’erba rugiadosa, puntò svelto lo schioppo e premette il grilletto sforzandosi di non chiudere gli occhi. Il fragore dello sparo interruppe la tensione, costringendo un fiume di calandre a librarsi dalla distesa di grano in fondo al pianoro.Guardò sé stesso balzare incontro alla muta a grandi falcate precipitose. Il respiro calmo dello zio ancorato sulla schiena. «Dai! Appresso», diceva. E infine furono laggiù. Il corpo della fiera riversa sul terreno umidiccio, Il manto arruffato del pelo appena imbrattato da un rivolo di sangue scuro come il bitume. L’eco di un ultimo rantolo convulso che si confondeva anonimo nel gran putiferio dei cani e poi, secca, atroce e definitiva: la morte.«Devi bagnarti il viso», disse zio Renzo porgendogli un serramanico. E questo fu quello che fece il ragazzo. Si chinò sul corpo esanime della bestia e vi passò sotto il collo la lama. Poi si strofinò di sangue la faccia.Non avrebbe conservato alcuna memoria dello sparo, o del peso del fucile, né del rinculo del calcio. Eppure quel momento sarebbe stato un punto fermo nella sua vita. Di tutta la sua intera, lunghissima esistenza.Giunti al casale il cugino Ludovico, calzoni spessi di fustagno e stivali pesanti ai piedi, gli venne incontro facendogli le feste. Aveva pochi anni in meno di lui, Ludovico, e presto avrebbe fronteggiato anche lui il cinghiale.Poi la zia, fiancheggiata da Luisa, apparve sul ballatoio del casale e lo salutò con un gesto fluido e benaugurante, mentre l’avanguardia del giorno si levava sullo sfondo irrorando l’orizzonte di una luce diamantina.Luisa gli piaceva. Di notte la sua grazia veniva a rovinargli il sonno. La vide indicargli con un sorriso di benevolo scherno il viso impiastricciato del sangue della preda. Lui rispose al saluto, emozionato.In quel mentre, zoccolando sul sentiero, la squadra dei butteri varcò l’ingresso della tenuta. Erano circa una diecina, la doppietta a tracolla e le mazzarelle dondolanti lungo le cintole di cuoio.Mastice, dai folti baffacci alla mongola, capeggiava altero la piccola processione di cavalieri. Il baio scuro sotto di lui, un esemplare che nessun’altro si sarebbe mai azzardato a montare, procedeva regale verso di loro sollevando minuscole coltri di polvere e sabbia che incipria
Suo padre se l’era portato via la malaria.E non era stata una cosa rapida. Né indolore.Adesso c’era zio Renzo, a pensare a lui. La vegetazione palustre della Diaccia che abbracciava il limitare della boscaglia mentre il latrato dei cani da caccia convergeva verso il loro appostamento. E lui, stringendo il suo primo schioppo tra le dita sottili, l’uniforme lastra grigia di un’alba radiosa sulla testa, aspettava ginocchioni senza fiatare.Quando il latrato si fece vicino, zio Renzo, alle sue spalle, lo toccò piano sussurrandogli nell’orecchio la parola «ora!». E il suo cuore fibrillò per un secondo.Poi, in un frenetico scalpitare, la sterpaglia sembrò fendersi e animarsi, e, tutt’a un tratto, il cinghiale arrivò. Non prima, non dopo, semplicemente fu lì. Sfilò fulmineo tra le commessure degli alberi, grufolando impazzito come la creatura emersa da un sogno all’incontrario, la scomposta muta dei cani che gli zavorrava le calcagna.La bestia si arrestò per un secondo, maestosa, voltandosi a ruggire il suo disappunto agli inseguitori, il respiro che gli si condensava tra le fauci indomite prima di rimettersi in fuga. Di nuovo suo zio Renzo lo incitò: «ora!», proferì aspro, e lui, sollevandosi dall’erba rugiadosa, puntò svelto lo schioppo e premette il grilletto sforzandosi di non chiudere gli occhi. Il fragore dello sparo interruppe la tensione, costringendo un fiume di calandre a librarsi dalla distesa di grano in fondo al pianoro.Guardò sé stesso balzare incontro alla muta a grandi falcate precipitose. Il respiro calmo dello zio ancorato sulla schiena. «Dai! Appresso», diceva. E infine furono laggiù. Il corpo della fiera riversa sul terreno umidiccio, Il manto arruffato del pelo appena imbrattato da un rivolo di sangue scuro come il bitume. L’eco di un ultimo rantolo convulso che si confondeva anonimo nel gran putiferio dei cani e poi, secca, atroce e definitiva: la morte.«Devi bagnarti il viso», disse zio Renzo porgendogli un serramanico. E questo fu quello che fece il ragazzo. Si chinò sul corpo esanime della bestia e vi passò sotto il collo la lama. Poi si strofinò di sangue la faccia.Non avrebbe conservato alcuna memoria dello sparo, o del peso del fucile, né del rinculo del calcio. Eppure quel momento sarebbe stato un punto fermo nella sua vita. Di tutta la sua intera, lunghissima esistenza.Giunti al casale il cugino Ludovico, calzoni spessi di fustagno e stivali pesanti ai piedi, gli venne incontro facendogli le feste. Aveva pochi anni in meno di lui, Ludovico, e presto avrebbe fronteggiato anche lui il cinghiale.Poi la zia, fiancheggiata da Luisa, apparve sul ballatoio del casale e lo salutò con un gesto fluido e benaugurante, mentre l’avanguardia del giorno si levava sullo sfondo irrorando l’orizzonte di una luce diamantina.Luisa gli piaceva. Di notte la sua grazia veniva a rovinargli il sonno. La vide indicargli con un sorriso di benevolo scherno il viso impiastricciato del sangue della preda. Lui rispose al saluto, emozionato.In quel mentre, zoccolando sul sentiero, la squadra dei butteri varcò l’ingresso della tenuta. Erano circa una diecina, la doppietta a tracolla e le mazzarelle dondolanti lungo le cintole di cuoio.Mastice, dai folti baffacci alla mongola, capeggiava altero la piccola processione di cavalieri. Il baio scuro sotto di lui, un esemplare che nessun’altro si sarebbe mai azzardato a montare, procedeva regale verso di loro sollevando minuscole coltri di polvere e sabbia che incipria
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