Primo giorno di caccia.

Creato il 27 ottobre 2010 da Omar

Suo padre se l’era portato via la malaria.E non era stata una cosa rapida. Né indolore.Adesso c’era zio Renzo, a pensare a lui. La vegetazione palustre della Diaccia che abbracciava il limitare della boscaglia mentre il latrato dei cani da caccia convergeva verso il loro appostamento. E lui, stringendo il suo primo schioppo tra le dita sottili, l’uniforme lastra grigia di un’alba radiosa sulla testa, aspettava ginocchioni senza fiatare.Quando il latrato si fece vicino, zio Renzo, alle sue spalle, lo toccò piano sussurrandogli nell’orecchio la parola «ora!». E il suo cuore fibrillò per un secondo.Poi, in un frenetico scalpitare, la sterpaglia sembrò fendersi e animarsi, e, tutt’a un tratto, il cinghiale arrivò. Non prima, non dopo, semplicemente fu lì. Sfilò fulmineo tra le commessure degli alberi, grufolando impazzito come la creatura emersa da un sogno all’incontrario, la scomposta muta dei cani che gli zavorrava le calcagna.La bestia si arrestò per un secondo, maestosa, voltandosi a ruggire il suo disappunto agli inseguitori, il respiro che gli si condensava tra le fauci indomite prima di rimettersi in fuga. Di nuovo suo zio Renzo lo incitò: «ora!», proferì aspro, e lui, sollevandosi dall’erba rugiadosa, puntò svelto lo schioppo e premette il grilletto sforzandosi di non chiudere gli occhi. Il fragore dello sparo interruppe la tensione, costringendo un fiume di calandre a librarsi dalla distesa di grano in fondo al pianoro.Guardò sé stesso balzare incontro alla muta a grandi falcate precipitose. Il respiro calmo dello zio ancorato sulla schiena. «Dai! Appresso», diceva. E infine furono laggiù. Il corpo della fiera riversa sul terreno umidiccio, Il manto arruffato del pelo appena imbrattato da un rivolo di sangue scuro come il bitume. L’eco di un ultimo rantolo convulso che si confondeva anonimo nel gran putiferio dei cani e poi, secca, atroce e definitiva: la morte.«Devi bagnarti il viso», disse zio Renzo porgendogli un serramanico. E questo fu quello che fece il ragazzo. Si chinò sul corpo esanime della bestia e vi passò sotto il collo la lama. Poi si strofinò di sangue la faccia.Non avrebbe conservato alcuna memoria dello sparo, o del peso del fucile, né del rinculo del calcio. Eppure quel momento sarebbe stato un punto fermo nella sua vita. Di tutta la sua intera, lunghissima esistenza.Giunti al casale il cugino Ludovico, calzoni spessi di fustagno e stivali pesanti ai piedi, gli venne incontro facendogli le feste. Aveva pochi anni in meno di lui, Ludovico, e presto avrebbe fronteggiato anche lui il cinghiale.Poi la zia, fiancheggiata da Luisa, apparve sul ballatoio del casale e lo salutò con un gesto fluido e benaugurante, mentre l’avanguardia del giorno si levava sullo sfondo irrorando l’orizzonte di una luce diamantina.Luisa gli piaceva. Di notte la sua grazia veniva a rovinargli il sonno. La vide indicargli con un sorriso di benevolo scherno il viso impiastricciato del sangue della preda. Lui rispose al saluto, emozionato.In quel mentre, zoccolando sul sentiero, la squadra dei butteri varcò l’ingresso della tenuta. Erano circa una diecina, la doppietta a tracolla e le mazzarelle dondolanti lungo le cintole di cuoio.Mastice, dai folti baffacci alla mongola, capeggiava altero la piccola processione di cavalieri. Il baio scuro sotto di lui, un esemplare che nessun’altro si sarebbe mai azzardato a montare, procedeva regale verso di loro sollevando minuscole coltri di polvere e sabbia che incipriavano la brezza mattutina.Quando la fila di butteri fu a un passo da zio Renzo, Mastice diede un secco strattone alle redini. Il cavallo emise un grugnito sordo e scartò leggero di un quarto, poi si fermò. Gli altri butteri lo imitarono all’unisono, e subito una salva di grida d’esultanza sommerse il ragazzo di una piacevole vergogna.Ma lui non fece niente. Ritto al fianco di suo zio, con lo schioppo poggiato sul collo come un giogo, cercò soltanto di tenere a freno il tremito, sentendo le gote imporporarsi. Zio Renzo cavò una vecchia pipa d’osso dalle tasche e se la infilò in bocca, sorridendo al suo indirizzo.Mastice, saldo sulla sella, sembrava un’immensa statua equestre, tutt’uno col suo splendido baio.Gli altri cominciavano a smontare dalle loro cavalcature, alcuni portando cesti pieni di ammazzafegati, altri coperte ripiegate.Poi, finalmente, Mastice si decise a scantonare dal destriero.Qualcuno degli uomini di zio Renzo aveva trascinato il cinghiale ucciso al centro dello spiazzo antistante al casale. E la bestia stava là inerte, in bella mostra, mentre lo sfolgorio del sole si faceva gradualmente più intenso.«Vieni», vociò Mastice incamminandosi senza guardare il ragazzo. Lui azzardò un passo in avanti, incerto, consegnando la sua arma allo zio. Che l’accolse facendogli cenno col mento di seguire il capo dei butteri. Si approssimarono assieme verso le stalle. Mastice era un gigante dai tratti rudi, lui un sedicenne esile ma ben piantato.«Entra», disse Mastice indicando col pollice l’ingresso della stalla.Il ragazzo mise piede nella grande sala avvolta dalla penombra. I cavalli erano quasi tutti fuori, a parte un vecchio ronzino malato, e le fette di pulviscolo che rasoiavano le mangiatoie falsavano le dimensioni dello stabile. Un silenzio assoluto - rotto solo dal perenne sciamare delle mosche - accompagnava quell’ora facendo assomigliare la stalla quieta ad una cattedrale di campagna, un santuario agreste pregno degli odori più ancestrali.«È tuo, adesso!» esclamò il capo dei butteri indicando insistentemente il recinto più estremo, e il ragazzo, tentoni, s’inoltrò nella paglia seguendo la traccia di un nitrito stentato che andava perdendosi nella semioscurità.C’era un puledro pezzato, ad attenderlo, e, appena si accorse di lui, l’animale scalciò delicatamente smuovendo la scabra criniera dalla sua parte. Uno spettacolo.Sarebbero successe tante cose, dopo.Avrebbe messo l’anello al dito di Luisa. Zio Renzo ucciso dal primo trattore dell’azienda. E Ludovico dato dai delatori in pasto alla polizia fascista. Ma, in quel complicato travaglio di gioia e di dolore, quel momento sarebbe rimasto indelebilmente impresso nella sua memoria. Solo quel momento. Per l’intero, lungo arco della sua esistenza.(racconto apparso in Tutti dicono Maremma Maremma)

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