Una donna mi parcheggia selvaggiamente accanto mentre di scatto mi allontano dal bordo del marciapiede. La supero mentre completa veloce la manovra e guardo le vetrine che sembrano abbandonate. Tutto chiuso a Macerata di domenica mattina.
Faccio caso a una Seicento blu elettrico. La macchina piccolina e senza servosterzo delle signore anziane. Accanto al lato di guida c’è uno scatolone colmo di fiori dalla corolla larga, rosa e bordeaux. Stelo lungo, lunghissimo, verde chiaro. E poi foglie, e qualche altro tipo di esplosione bianca. Fiori per morti.
E allorché registro questo piccolo cadeaux da consegnare a qualche parente che questo Natale non sarà seduto a tavola, mi travolge quell’odore eccezionale. Odore di cimitero. Una casualità strana: vedere dei fiori in una macchina e sentire per strada, lontano da ogni luogo adibito alla sepoltura, quel tipico odorato.
Avete presente com’è la puzza che si respira tra i marmi e i fiori morti? Incenso e naftalina. Sacralità e vecchiaia. Come a casa di mia nonna quando giocavamo a nascondino chiudendoci negli armadi in camera da letto. Lì che era sempre buio e le persiane sempre chiuse, gli armadi di mogano finto nascondevano i vestiti buoni della nonna rigorosamente coperti da una busta di cellophane trasparente. E le grucce, quelle sottili di metallo come da lavanderia. Ci si rannicchiava lì sotto tra i camicini con le fantasie anni ’70: righe rosse nere e gialline, qualche brutto fiore stilizzato, quadretti. E la naftalina ti stordiva. Chiusa al buio a giocare con queste palline bianche di pura chimica non vedevi l’ora che qualcuno ti scoprisse, che aprisse quell’anta e che uno spiraglio di flebile luce dal corridoio potesse ridare un senso ai pensieri oramai disciolti dal veleno conservativo e antitarme. Come ci sgridava mia madre!
E l’odore biondo delle Kim che fumava nonna in bagno: odore di tabacco e cesso, misto fumo e saponette, detersivo Ariel in polvere. E poi incenso, o pigne a bruciare sul fornello della cucina, ben infilzate in ogni fessura di chiodi di garofano e scorze d’arancia tutt’intorno. Il nonno faceva la processione nel corridoio e aspergeva la casa coi fumi densi e grigi della resina di Gesù Bambino, rigorosamente assente dal maestoso presepe che ogni anno realizzava a mano, con fantasia e ingegno, come tradizione napoletana vuole. Non so se più per una questione rituale (come a emulare la recita del prete che dà la benedizione) o per un fatto pratico, perché ogni angolo della casa, sgabuzzino compreso, potesse essere purificato dal fumo, dal fuoco che ha già bruciato.
Naftalina e incenso, incenso e naftalina, e io li ho uniti nell’odore che ho sentito quella volta al cimitero di Ercolano. Ero molto piccola e mamma e papà mi ci portarono per salutare una qualche bisnonna che nemmeno conoscevo. Un evento inusuale, che a casa mia abbiamo sempre preferito i vivi, coscienti dell’inutilità di omaggi floreali, consapevoli della sordità di chi se n’è voluto andare. Più per un’abitudine, per un’usanza culturalmente e socialmente diffusa, quel giorno con la mia famiglia andammo a rinchiuderci tra quelle alte mura grigie che costeggiavamo ogni domenica per andare a trovare l’altra nonna.
E il traffico a quell’incrocio, un grande spiazzo dove solo negli anni 2000 hanno compreso l’opportunità di realizzare una rotatoria, era causa di mezz’ore o anche ore di tremenda attesa, soprattutto d’estate quando il sole scotta e la gente è più agitata. Succedevano risse, o anche peggio. Il suocero di zia vendeva pane in strada appena fuori dal suo bar. E quell’odore sì che me lo ricordo, di pane leggermente acido, che chi mangia al nord non può immaginare. Quel profumo croccante, come la crosticina laterale che era riservata a noi bambini, e poi odore acre, quello della parte di sotto e delle estremità bruciate: quella parte era per i padri e, svuotata di mollica, si riempiva di friarielli o melanzane a funghetto.
L’attesa di quell’odore di buono viene però disillusa da questa cosa maestosa che mi entra nel naso. Di immagini ne conservo poche, devo aver avuto più o meno cinque anni, mio fratello non c’era ancora. Scale e ambienti aperti, concentrici. Balconate e marmi come se fossimo in un neoclassicismo annerito e non più trionfale. Probabilmente ricordo quel posto molto più grande e misterioso di come in realtà non sia. Ma non posso farci niente, quell’odore prepotente mi ha devastato i ricordi e non c’è posto per la razionalità. Non più “ricordo”, ma “immagino” di aver visto la foto di uno zio di mia madre, bianca e nera, forse dipinta, com’era usanza a inizio ‘900. Ricordo una donna, lontana parente anche lei. Guardavo l’immagine che fu e mi chiedevo dov’è che somigliasse a quello che allora io conoscevo: alla nonna, alla mamma. Dove? Chi erano quelle persone in bianco e nero? Avevano mai visto la vita a colori, o a quel tempo era tutto grigio come questo cimitero dall’odore penetrante?
C’era silenzio e anche mio padre sussurrava piano. Si facevano il segno della croce e con la mano baciavano i marmi. Mi sono guardata intorno come a registrare quella visione che non avrei mai più incontrato. Penso spesso a quel posto. Ogni rara volta che entro in un luogo in cui si gettano via le persone, o anche da un fioraio… M’inebria quel ricordo di mistero.
Amo ricevere fiori in regalo. Eppure non profumano che di morte: non hanno niente a che vedere con gli spray per l’ambiente all’odore di lavanda o mimosa. Anzi, io che le prime mimose le ho sempre ricevute da papà il 14 febbraio per il mio onomastico (me le raccoglieva dall’albero a San Sebastiano vicino al cannone, il primo che fioriva ogni anno) ho imparato molto presto che odorano di insetti schiacciati; eppure era bello mettere la faccia in mezzo a una nuvola di palline gialle e morbide, i cui peli invisibili mi accarezzavano le guance rosse e il naso largo da cane.
Il puzzo dei fiori e il gesto finto d’inebriarsi annusandoli (perché è così che le donne fanno in tv quando le si omaggia di petali) è diventato nel tempo un interesse vero, una passione morbosa per qualcosa che dà piacere alla vista e disturbo al naso. Un corto circuito di emozioni, dove solo a volte, in rare varietà di piante, una nota dolce e profumata raggiunge il cervello raccontando che è tutto bello, bellissimo.
La bellezza corrotta, lo stupore per il fasto di un vecchio cimitero dove tutto è silenzio e morte, s’insinueranno sempre nel mio pensiero. Come ondate di mare che si scontrano e s’infrangono, la dualità di mesce e allora io amo l’odore dei cimiteri. Più della morte di una bisnonna e di uno zio che non ho mai visto, vincono le sensazioni positive di un’architettura grandiosa, nuova per i miei piccoli occhi. Vince l’incenso di Natale del nonno, vincono i fiori bianchi, vince il giocare tra la naftalina, la domenica speciale con mamma e papà assieme, la scoperta di un luogo al di là delle alte mura che sempre avevo visto, su cui sempre mi ero interrogata.
Passo accanto a questa macchinina piena di fiori e non so da dove, m’investe questo cimitero. Mi guardo intorno come una pazza, cerco la fonte, ma non c’è niente. Solo un manifesto storto di un film d’essay, e un volantino di uno spettacolo teatrale con un paio di gambe divaricate su scarpe col tacco gialle.
Ho continuato a camminare e a inspirare forte finché eccolo, l’odore di caffè.
Testo e opere di Valentina Formisano