Maia Flore
giorno n. I (neve)
il silenzio intorno e le orme a sporcare l’immacolato bianco: mi ha sempre fatto pensare tutta questa neve, non l’ho mai trovata riposante: il buio più cupo, più refrattario alla luce, terreno nero sepolto di pietre sorde, come il cielo in una notte senza stelle, a tratti affiorante, lancia occhiate torve sotto quel candore – qualche cosa si nasconde a rammentare la cenere del consumato ribollire della natura in fiore – gli scheletri delle piante evocano quel silenzio, fatto più di parole soffocate e di non saper dire piuttosto che di placida contemplazione – eppure in quell’ingoiare cotone avverto la violenza dell’ineluttabile processo di morte e di rinascita e mi sento di poter abbracciare la terra, mi annullo, come l’ombra a mezzogiorno aderisco totalmente al mio corpo disperso in mezzo a quel freddo marmo grezzo…
[...]
giorno n. III (equazioni lineari)
piede che schiaccia il petto e pesa dolce sul cuore, accolto poi nei suoi capelli biondi sparsi, profumati come grano = miele succhiato attraverso il suolo come nettare nel tentativo di strisciare come un serpente ai suoi piedi sacri, per quanto sudici (equazione orizzontale dell’amore passionale e divino)
ano che espelle l’ombra viva dell’anima, tutto ciò che non vogliamo sapere e subodoriamo = occhio che contempla il sole, per esserne accecato, spuntato in cima al capo come un osceno e beffardo buco dello spirito, a volte gonfio come un fallo, occhio pineale, erutta come un vulcano tutto ciò che forma il non-sapere (equazione verticale di Bataille)
accecamento per troppo vedere, nei campi di grano colpo di pistola e corvi che improvvisano una danza estiva = notte cimitero di stelle, grido in fondo a nere cantine umide, ratti sonnambuli rosicchiano idee chiare e distinte e istinti fermentano sotto forma di sogni in botti d’infanzia (equazione del veggente)
vene gonfie alle tempie riscaldate dal sole, ciondolo d’oro al suo collo nascosto nel profumo del seno, luccicante richiamo per gazze sempre in calore e tranquillamente affacciate alla violenza animale e cieca, moneta per comprarsi il lusso, al di là di ogni regola e di ogni invidia = putrefazione e materia fecale, acque sporche del pozzo nella cui freschezza amiamo in pieno giorno inumarci, cadavere sotto la luce della luna, argenteo riverbero delle acque salmastre di un porto ignoto (equazione alchemica)
IO = DIO (equazione della potenza)
sé = altro (equazione del divenire)
x è l’incognita del de-siderare, fiume che ci attraversa e ci disperde come particelle nel mondo, acqua nell’acqua, terra nella terra, fuoco nel fuoco, aria nell’aria…
[...]
giorno n. V (a-capo)
nel testo sogno di interpretare e scrivere l’a-capo come assenza di capo o senza-capo e non come andare a capo nei due modi ammessi: come lirico passaggio (a-capo poetico), o come interruzione necessaria e logica al discorso, punto a capo (a-capo prosaico):
fine non evocata e giustificata dal principio
principio che non contiene alcuna armonica fine
improvvisa impensata interruzione.
E andare a capo senza accorgersi che
lo si è fatto
e farlo senza
necessità
a-capo significa: dare in pasto ai lupi il sapere accumulato, sentire l’eccitazione nascere da eserciti di idee in marcia senza comando, il loro solletico per tutto il corpo suscita erezioni meditate, il loro brulincante avanzare orgasmi di senso, il loro fermentare piacevoli deiezioni di sofismi cupi:
nubi, onde, tori, torri,
monte che s’ammantano di luce
sgualcite pagine di un diario: cartello stradale
mentre un mantello d’ambra mi ricopre come un sudario
il Battista ritrovato in un vagone letto durante il passaggio in galleria
danza con il capo sopra il vassoio
felice offerta di questo viaggio illuminato
per quanto notturno
occorre decentrare il volto come il cuore, volgerlo a sinistra, cercare l’ombra in cui giacere là dove non si trova: in pieno sole, nell’arsura dell’occhio divino – alzare le braccia verso il cielo per strapparne brandelli, alla cieca, dilaniare avidi l’azzurro come carne cruda di carcassa ancora calda (eleganti avvoltoi sanno lodare la ferocia – impariamo dalla loro pazienza nel volteggiare!):
c’è del nero oltre lo strappo ricucito della volta celeste, ferita di dio:
ecco la soglia!
è necessario de-capitare
il grano è maturo…
Andy Prokhwanderlust
giorno n. VI (doppio ovvero i gemelli)
si comunica con il proprio Altro attraverso lo specchio in frantumi in una stanza vuota senza porte e senza finestre; i molteplici pezzi dell’immagine che ci sta davanti, nostro riflesso, rappresentano l’urlo ibernato dell’impossibilità di comunicare…
Immaginiamo che ogni pensiero, che ogni sentimento, che ogni espressione del nostro viso, che ogni singola fibra del nostro corpo, di notte venga rubato da un Altro che sia del tutto simile a noi – tutto ciò che con certezza pensavamo ci appartenesse, di diritto, nostra proprietà privata e intima, ci viene con altrettanto diritto portato via da questo ladro silenzioso e a nulla valgono la legge, a nulla l’autorità, a nulla le resistenze, non c’è nessuno che possa vedere e denunciare il fatto: quell’Altro appare identico a me e nessuno può contestargli di avere sottratto ingiustamente qualche cosa, poiché in fondo quell’Altro sono Io.
E’ il mio gemello identico: è specchio delle mie azioni, ripete meccanicamente ogni mio gesto, di proposito nello stesso modo, una frazione di tempo infinitesimale dopo, ma del tutto impercettibile dall’esterno e dagli altri, come l’aggiunta di un’eco alla mia voce – a chi non è capitato di provare questa sensazione: per la prima volta ha udito la propria voce registrata e gli è sembrata diversa, meno dolce, più metallica, quasi contraffatta, come la voce di un altro, e si è vergognato di avere pensato di parlare in un modo e invece di essere stato udito dagli altri sempre in un altro modo? Proprio questa è la sensazione che la presenza silenziosa dell’Altro porta con sé – possiamo non accorgecene mai, ma quando la intuiamo non ci abbandona più, come un’ombra che ci segue, la nostra ombra sempre attaccata al corpo, assenza di luce che si anima e che agisce al nostro posto e a nostra insaputa, quando vogliamo riposare (salvo poi venirci a narrare tutto con dovizia sadica di particolari, bisbigliando fastidiosamente nell’orecchio e prolungando così la nostra veglia).
Il nostro gemello è il retropensiero che ci smentisce dicendo l’opposto quando affermiamo qualche cosa come principio. Quando noi diciamo: “No”, lui dice: “Sì”, quando aneliamo alla luce, lui volge i propri occhi verso la tenebra, quando affermiamo di qualcosa che è bianco, lui intende nero; quando ci allontaniamo da una situazione spiacevole, lui ci si avvicina pericolosamente, quando decidiamo di sorvolare su qualcosa, lui interpreta il volo come un lasciare la scia di lumaca-aeroplano sul cielo…
A volte il mio gemello può interpretare i miei oscuri istinti meglio di quanto possa fare io e metterli in atto al mio posto: a nulla varrà allora tentare di rinnegarlo, di staccarmi dal cordone ombelicale che ci lega, a nulla varrà dire: “Io sono diverso, non sono lui”, solo perché non ho portato a realizzazione ciò che ho desiderato: ci penserà lui, mi guarderà di nascosto con i suoi occhi duri e con un ghigno che ben conosco, mentre si avvia a fare ciò che non riesco a fare. Quando affonderà la lama nel petto della vittima, quando sentirà il caldo sangue bagnargli le labbra, penserà a me, suo debole compagno da guidare sempre e da cui non si può separare mai, sua condanna e suo unico amore.
L’Altro cerca di cullarti in visioni consolatrici, dipingendoti diverso da ciò che sei, ma tu sai che l’immaginazione nasconde la rugosa realtà: ti dice che sei re in un castello, mentre fredde catene ti fermano i polsi e sbarre rigano il cielo; quando per miracolo potrai guardarti da fuori, con lo sguardo dell’Altro, ti vedrai simile ad uno scarafaggio che incespica stupidamente, muovendo le zampette in modo incontrollabile, come lo scarabeo e la sua palla di sterco, ostinato nel fare il contrario di ciò che ora ti pare ragionevole.
Ma la consapevolezza e il distacco durano poco: non ci si sbarazza facilmente del proprio gemello-altro che ci ingoia come un cannibale.
Ogni tanto ti chiedi se lui non sia in fondo altri che te stesso ma, per così dire, forgiato, plasmato, dallo sguardo delle altre persone: la tua passeggiata per strada, il tuo viso, la tua pettinatura, il tuo volto, le tue mani, tutto te stesso, anche la tua figura vista da dietro, la tua nuca, la tua schiena, tutto ti arriva filtrato dallo sguardo degli altri. A questo punto, ti dici: “Ecco! Gli altri mi rivelano ciò che sono per loro, in pubblico. La folla è lo specchio in cui mi vedo finalmente, ma, in fondo, io non sono così!” e ti piace rassicurarti al pensiero che nella tua tana sei al sicuro da quell’immagine pubblica falsa, dall’Altro che sei in piazza, che nei tuoi cunicoli puoi custodire e sottrarre a sguardi invidiosi e minacciosi, tesori e prede… Attento! Attento che quell’Altro non penetri di nascosto nel tuo nascondiglio e non ti faccia l’agguato alle spalle per usurpare il cantuccio dove pensavi non albergasse il pericolo! Sei proprio sicuro di custodire tesori, o si tratta soltanto di escrementi?
Sconcertato e esausto, dopo questo gioco di maschere, vorresti finalmente avere la pace che si raggiunge nel sonno e pensi di affogare l’Altro o nell’azione o rinnovando l’esercizio millenario del “Conosci te stesso”; vorresti che il tuo amato gemello (che ti aspetta a casa, che accende per te la stufa, che per te affila i coltelli) sparisse o non fosse mai esistito e pensi di sbarazzartene o con un gesto pubblico plateale oppure con la conoscenza esatta di te…
Tutto ciò è vano: una volta instaurato il gioco di specchi e la moltiplicazione dei punti di vista, l’unica speranza è vagare nel labirinto tenendo a bada le voci che lo percorrono, cercando l’uscita.
Occorrerebbe, lo sappiamo, risalire a prima della separazione, a prima del concepimento mostruoso dei gemelli, nell’utero…
[...]
giorno n. VIII (estasi)
“fa’ del tuo corpo il tempio che io sarò autorizzato a profanare, renditi preziosa al mondo al solo scopo di abbassarti davanti a me:
bocca aperta quando dici spirito – io intendo carne
occhi celesti quando contemplate il cielo – io so che sognate l’abisso
mani delicate e dita sottili, strumento preciso di lavoro e studio, accarezzate libri sacri – io so in quali lordure vi sporcherete
viso serio e fine, serenamente affacciato a sorrisi di circostanza – io so dell’osceno abbandono, dello scompiglio, del rossore che si compiace di sé
voce flautata e intelligente sguardo, che sa mettere tutte le cose in ordine – io presento inarticolati gemiti, simili a preghiere soffocate, ed il roteare delle pupille perse nel bianco, come boa nel mare per immersi pensieri subaquei
capelli sempre riuniti in geometrie precise – vi vedo già sparsi ad accogliermi come un mare odoroso
andatura graziosa e incedere orgoglioso nella postura eretta – io immagino l’eccitante ritorno al quattrozampe animale
vorrei che il tuo pensiero più indicibile venisse ad alta voce declamato dall’altoparlante di una stazione come l’annuncio di un treno in arrivo o in partenza
vorrei che qualche cosa nel momento dell’abbandono al rapimento della frenesia mi ricordasse il tuo contegno dolce, misurato, musicale, della vita di tutti i giorni: un tuo abito, una tua espressione, un lampo negli occhi, un minimo dettaglio ancora intatto per quanto ormai isolato
e parimenti vorrei che, mentre ci troviamo in pubblico, io indovini da un tuo sguardo, o da un sorriso, qualche cosa che solo io posso sapere, che solo a me svelasti allora, quando eri persa”
quando ci incontreremo, so che non sarò più io,
avrò abbandonato me stesso,
sarò fuori – là dove sarai…
giorno n. IX (nigredo)
nessuna corrente magnetica tira i miei pensieri che ristagnano come acquitrino
e riluce il giorno in paesi che ignoro, mentre qui la notte si è fatta perenne,
senza magnificenza di aurore boreali…
e non penso e dunque non sono
nei recessi del mio corpo fermentano sordi i cattivi istinti: hanno fessure e
antri ciechi e pioggia all’eccesso per lussureggiare come piante in foreste tropicali
un’insana atmosfera come un ronzio cupo tutto ghermisce, ricamando trapunte di febbre
il nero corteggia il verde turgido della vegetazione cieca, divenendone linfa
colonne verghe di una cattedrale limacciosa
guardano in su
senza speranza di veder luce, tanto è fitta la cupola,
e creano l’abside vulva, dove il seme sparso abbondante germina lo spazio per l’assunzione pluviale
attraverso l’abbassamento infinito…
e radici s’infittiscono e annegano nella terra ogni segno chiaro e distinto,
marce radici – ebbre d’acqua,
soffocanti ramificate ripetizioni di ripetizioni…
e germogli immemori proliferano
sulla putrefazione precoce di ciò che nacque sempre rasente il suolo
demente abortito agonizzante fin dall’origine…
Cosa posso essere, se essere devo?
Ragno – segretamente laborioso -
che suscita ribrezzo solo a chi non si capacita
dell’inconcepibile osceno del creato -
intesso i fili delle voci che si avvitano nel mio cranio, come spifferi che gracchiano tra le orbite vuote del mio teschio,
come filamenti luccicanti di stelle che tramano nel buio
intesso, intesso, un invisibile ordito – buono solo per filtrare polvere, pare…
e affamato rimango privo di prede
intesso, intesso, ancora convinto del possibile miracolo -
ma per ora sto immoto inespressivo come una maschera di scena, abbandonata
dietro le quinte, risparmio i movimenti
guardandomi da fuori al rallentatore della noia
e sognando l’arsura silenziosa del deserto al meriggio,
la sua matematica precisione nel sottrarre liquidi e vitalità,
gioco a fare il morto
attendendo che una farfalla spensierata
nell’orrore del mio respiro intrappoli la sua gioia
e non penso e dunque non sono…
Elena Oganesyan
giorno n. X (putrefactio)
di ogni forma presagire la de-com-po-si-zio-ne
l’informe carezza al solvente, mai doma nel palese recesso
alla superficie cieca di una radura aperta e sommersa
e fitta ampia veduta murata
il segno del marcire fruttato, dolce come occhi gonfi
leccati dal mosto, fin nel rosseggiare dell’alba:
denti guasti nella bocca del mattino
moltitudine e deserto della mente
menzogna detta a fin di realtà
rabbocca il sogno – gusto di tappo:
sappiamo – fin dentro le ossa: fin nel midollo
fin nello sporco prezioso brillare – che tutto ciò che si dona
è in pura perdita…
“leva l’ombra – ti prego!”
geme la pupilla contratta dal sole penetrante
mentre dalla ferita nera del tramonto stuprato
germoglia il seme in falde terrose di gonna…
ma il cappotto – abitudine di un vecchio stepposo quasi inanimato –
giochi di polvere, polvere di giochi: chiasmo meccanico –
allo scheletro attaccapanni che lo imgobbisce
lasciato appeso durante l’estate
cocciuta memoria che sogna il marmo –
il cappotto è l’anima assente
di pietra vorrebbe la propria statua
e la dimora
ma ora la scia di infantile trionfo s’alza:
mi risveglio in lacrime ebbre di rugiada al
fendente del gallo:
lacera l’aria:
annuncia
la fine
di ogni
speranza
e l’eccitante agonia della
bellezza…
giorno n. XI (attesa)
«Chi credete di ingannare? In fondo voi sperate che qualche cosa venga sottratto all’oblio. Che l’azione appianatrice del tempo lasci svettare qualche prezioso ricordo. Voi sapete che tutto è destinato a finire e fingete di averne piena contezza. Vi compiacete addirittura nell’enumerare le cose periture. Ma tutto ciò è artefatto: è evidente che vi illudete, che il vostro cinismo è simulato, che dietro il paravento della lucità si nasconde l’illusione di salvezza, che il vostro protestare e animarvi indignati contro ogni illusione è ipocrita. Altrimenti cosa fareste?! Avreste maggiore riguardo per ciò che si perde? Vivreste appieno? E’ evidente: voi volgete lo sguardo altrove e siete pronti al sacrificio pur di avere la certezza di un salvacondotto per l’al-di-là»
attendendo si vive
è vita l’attesa
probabilmente disattesa:
è attendere
ciò che per sempre non si saprà:
macchia cieca
luce dietro palpebre di morto
sciogli il nodo
accogli nel grembo le mie lacrime
io non è più
nemmeno un dio traduce in parola
il torto pesare del mondo
e il volo di libellula dello sguardo senza volto
mentre l’ala fa da àncora
alla rinascita in controluce
non giudicare ciò che rasente nasce –
il terreno meglio accarezza chi si piega senza umiltà,
chi sporca la grazia superba nel fango
bruco –
non potenza di farfalla
ma essere perfetto in sé
solo per chi ama l’opaco
divenire sempre lo stesso
del presente scevro di peso e di traino
(innocenza)
fumoso fermo-immagine come un racconto di guerra di nonno
cento pensieri foderati di nubi
come zucchero filato appiccicosi e lievi
inondavano cuscini
con gorgoglìo di risa e frescura –
bagnare il letto era un segreto amaro
come risvegliarsi colpevoli e
stare là in eterno rovello
se ancora in sogno si fosse
o se strappasse la rugosa realtà
necessaria tuttavia
una confessione
“tutto s’aggiusta” pensavi
e presto giunse l’irrimediabile come un ritornello
inopinato accadere e avanzare di ogni stagione
(esperienza)
divina impostura è ciò che si dà senza soluzione
all’ansia matematica di sapere:
si fa beffe del nostro affannarci
e piccoli restiamo di fronte al mistero:
il mai saputo che mai si saprà
è tutto ciò che c’è da sapere!
tragedia della nostra condizione:
si risolve in gioco di parole –
solo il balsamo del silenzio
è esatto nel non dire lo scandalo
della nostra dimora
fessura a cui avvicinare l’occhio
solo per essere inondati dall’erezione cieca
di luce in crepe di terra arsa
come pelle vista da vicino
istoriata …
ne aspiro l’odore
amo affogare ebbro
nell’abbandono a mondi
di nebulose di corpo
e dalle stelle
distoglier lo sguardo…
Biografia:
Daniele Baron, nato a Pinerolo nel 1976, vive in provincia di Torino. Dopo una prima formazione principalmente scientifica, i suoi interessi volgono verso un ambito artistico e letterario. Le sue passioni si concretizzano soprattutto nella pittura e nella scrittura. Nel 2004 si laurea con lode in Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi su Jean-Paul Sartre, intitolata “La morale dell’autenticità”. Dopo gli studi, trova lavoro come impiegato presso un Comune. Nel frattempo continua l’attività di ricerca in ambito filosofico appuntando il suo interesse in particolar modo sulla filosofia francese contemporanea, sull’esistenzialismo e infine sul pensiero di G. Bataille. Insieme sviluppa il desiderio di elaborare un personale percorso di ricerca teoretica per una filosofia del divenire.
Tiene un blog personale: http://barondaniele.blogspot.it e collabora alla rivista di filosofia on-line “Filosofia e nuovi sentieri”: https://filosofiaenuovisentieri.wordpress.com .