Prose Poem. Brian Patten

Creato il 25 gennaio 2011 da Viadellebelledonne

 

“In pubblico la poesia dovrebbe spogliarsi dei vestiti e salutare la persona più vicina; (…) Alla vista dei matematici dovrebbe sganciare l’algebra dalle loro menti e rimpiazzarla con la poesia; alla vista dei poeti dovrebbe sganciare la poesia dalle loro menti e rimpiazzarla con l’algebra; dovrebbe toccare chi non sopporta di essere toccato, dovrebbe innamorarsi dei bambini e corteggiarli con le fiabe; per due anni dovrebbe aspettare sul pianerottolo il ritorno a casa dei suoi compagni poi uscire fuori e trovarli tutti morti ” (1)  

 Sono rimasta piacevolmente sorpresa  di trovare sul numero di Dicembre  di Poesia, un articolo molto interessante  completamente dedicato a Brian Patten e all’esperienza dei poeti di Liverpool. Nell’articolo si indicano precisamente le vicissitudini familiari e sociali che nella prima parte della vita di Patten per sua stessa ammissione, hanno avuto, più di una formazione classica, un ruolo chiave in quello che sarà il futuro del suo intendere la poesia. L’esperienza di Liverpool coinvolge altri due poeti, Roger McGough e Adrian Henri, nel decennio tra gli anni 1960 e 70. “Uno degli aspetti socio-culturali più rilevanti emersi da quella cultura giovanilistica si manifestò nell’orgoglio e nel senso di appartenenza a una specifica area territoriale, in difesa di un’identità culturale esclusiva, aggredita dall’omologazione ai valori standardizzati e omogeneizzati (oggi si direbbe globalizzati)  cui si stavano uniformando i Paesi più industrializzati del mondo occidentale” (2). In questo senso, la sopravvivenza poetica  ad oggi dell’esperienza di Liverpool, testimonia  il localismo prendere un valore diverso rispetto a quello restrittivo che si è abituati ad attribuire ad esso, e lo prende grazie all’afflato performativo di tre poeti, che segnano col loro incontro anche la labilità del confine tra poesia e prosa, quando la scrittura poetica diventa un veicolo il cui il primo fine è darsi, in senso liberatorio ma non avulso dall’esistenza che per definizione è un fatto condiviso. Il momento performativo, carico dell’esperienza quotidiana da cui proviene, diventa un fulcro formidabile per quell’atto in cui viene impegnata artisticamente l’esperienza, la eleva con un moto effimero e istintivo che evidenzia il rapporto ininterrotto concernente  poesia e vita. L’effimero prende la valenza opposta del suo significato più facile, cioè quello che lo impronta alla dissolvenza, diventa il lampo del tutto realistico che altrimenti la fissità della scrittura può stanziare in una cifra priva di realtà. Il poeta trova nella lingua data in questo modo, lo slancio che si dice all’altro attraverso un territorio privo di demarcazioni, in cui l’inarginato o la misura naturale che lo contraddistingue ritmano in senso vitale il suo racconto. Come per la danza, l’effimero gioca un ruolo essenziale a cui difficilmente si accorda diritto: concordare col darsi la sua sparizione, la sparizione  che nel ricordo ricreerebbe paesaggi inadeguati e che nella riscrittura ne farebbe un’esperienza già mutata. L’incontro poetico, dunque, non esiste che lungo un tempo che lasci certi di un accaduto ineffabile, certi di aver assistito a quel solvere e coagulare che di continuo rende l’uomo un animale poetico, e col suo prossimo, passibile di similitudini impreviste.  

 

 

 °

 

Non lo voglio un albatro, non voglio quest’uccello,

devo incontrare una persona,

una persona paziente, buona e sana,

una persona con mani calde e col sorriso

che fa balbettare a dire sì.

Non voglio che questa persona amica veda l’albatro.

 

Lui divorerebbe quei sorrisi,

metterebbe alla prova quella pazienza,

beccherebbe quelle mani

fino a farle diventare sgradevoli e decrepite (3)

 

 

  1. Brian Patten, Prose Poem towards a Definition of Itself, trad. B. Nera e F. Marinzuli  
  2. Bernardino Nera e Floriana Marinzuli,  Poesia 225, Anno XXIII, Dicembre 2010, p. 28
  3. Brian Patten,  Albatross Ramble, trad. B. Nera e F. Marinzuli


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