Pubblicato da robertorossitesta su novembre 15, 2011
Un magazzino in disuso, pieno soltanto di ragnatele e rottami, di cinquanta e più metri quadri, per un gatto è un autentico regno. Ci può trascorrere il giorno a fare agguati alle mosche, o, appollaiato su una vecchia credenza, contemplare un immaginario viavai. E poi, a notte, uscire per la porta appena accostata, e ricevere un piatto di pappa da una donna gentile mai lasciata avvicinare e sempre osservata a distanza con gli occhi rotondi, diffidenti e fieri. No, davvero, per un gatto non può proprio esserci niente di meglio.
Ma questo un gatto non lo sa. Un gatto non si esprime, né formula pensieri. Quando non ha gravi acciacchi e trova abbastanza da mangiare passa molto tempo a leccarsi ed a lisciarsi il pelo; allora si può dire che le cose gli vanno bene, che il gatto è in armonia col mondo e che insomma è felice. D’altra parte, tutte queste sono chiacchiere di chi si pone il problema della propria armonia o disarmonia col mondo, e lo proietta sulle altre creature. In realtà, l’armonia un gatto non la perde mai. Se, ad esempio, per distrazione o sadismo la porta viene chiusa un paio di giorni, e all’esterno la donna gentile col suo piatto in mano si strugge, per un gatto non cambia quasi niente. Certo, magari si mette a raspare contro l’uscio, e il cuore gli pompa più in fretta, urtandogli nel petto; ma questi sono puri accadimenti, e dar loro un nome che li spieghi e giudichi è affare appunto di chi dà i nomi alle cose. Comunque non affare da gatto.
Non era affar mio, e nel momento in cui poté esserlo immediatamente non lo fu più.
Io ero un gatto, non mi esprimevo né formulavo pensieri, ma da quando ho perso – mi han tolto – le vibrisse e la coda sono un’anima fra le anime, soltanto più veloce e nel contempo sognante; e come anima posso guardarti negli occhi, guardarti diritto, benché, non per causa mia, (molto) dall’alto verso il basso; e come anima posso pensare e parlare, e dunque ti chiedo: “Perché hai voluto assassinarmi in quel modo, prendendomi per sete e per fame e per quella che, ora lo so, si chiama disperazione? Perché, quando il tuo incomprensibile scopo è stato raggiunto, per sovrappiù, hai denunciato la donna gentile che troppo tardi s’era decisa a fare saltare quel maledetto lucchetto?”.
Bada, è la prima e l’ultima volta che penso e che parlo; quello che adesso è un rigido fagotto coperto di mosche non lo poteva, io (ma bada, è la prima e l’ultima volta che pronuncio quest’oscena parola) non lo voglio più. Per chi non è diviso c’è di meglio, non ne vale la pena.