Psichedelia salentina

Creato il 11 dicembre 2013 da Cultura Salentina

11 dicembre 2013 di Pierluigi Camboa

©Pasquale Urso: Acquerello

Le candide falesie di Sant’Andrea, sferzate di giorno dalla bora e dalle onde, filtravano nel placido tramonto la lirica eco della dea del mare.

Pergami d’ammonite s’adagiavano lentamente sugli stupiti, esterrefatti lemuri malgasci al cospetto degli inverosimili arabeschi di Palazzo Sticchi.

Altalenanti rugiade s’affastellavano sul capezzale del fioco vento, sfiorando con le dita i turgidi capezzoli dell’asina in calore.

Un gelo d’ardesia bivaccava ad una spanna dall’uscio in impaziente attesa della nitida catarsi, avvisata dal capzioso, ozioso commiato della notte al primo baluginio d’oriente, sulla deserta torre di Porto Miggiano.

Il draconiano distico espunto dell’elegia ballonzolava incerto tra le osterie dei mosti e delle beghe, nel discinto discettare dell’ubriaco-re.

Torme d’efelidi sul glabro volto celtico candivano ieratiche ipocondrie al suono melenso delle cornamuse.

Ascetici conventi e compassati castelli nobiliari, spettrali gemme in un castone di tufi plebei, chiosavano fieri della loro storia nelle terre del griko e dei messapi.

Le chiese-madri dei villaggi e delle città, come le sinagoghe e i minareti, si stagliavano alte nel cielo, oasi di pace e di preghiera per un Dio infinitamente buono nelle funzioni religiose, ma nella vita di tutti i giorni inermi monumenti di nemesi e d’odio per un dio minore, convitato di pietra astioso e violento, perché ideato ed assemblato dall’uomo a sua misura e somiglianza, orpello d’un lucido calcolo d’un sempre meno ondivago odio e livore.

Le assurde schizofreniche ovazioni delle masse ai salapuzi della politica condannati al perenne silenzio ed agli strepitanti urlatori dei concorsi musicali negli spazi chiusi della rete ottundevano la ragione dei giovani, che si genuflettevano sopraffatti e sottomessi all’antico e sempre nuovo paradigma dell’avere e dell’apparire, refrattari a qualsivoglia resipiscenza ascetica sulla via di Damasco.

Un’esotica, arcana radice in apatica combustione nel turibolo diffondeva mirabili effluvi allucinogeni nella bucolica aria vespertina all’ombra della grande vallonea, mentre il lontano logoro crinale salmastro si rendeva indistinto allo sguardo e alla memoria.

L’ultima, solitaria foca monaca chiedeva invano un passaggio nei pressi di Felloniche agli insensibili avventori in uscita dal Tatanka, dopo la classica foto-ricordo di gruppo sullo sfondo del verdeggiante blu dell’oltremare.

Di lei mi restò solo il ricordo notturno dei riccioli al vento, ritmicamente illuminati dal gelido fascio del faro di Punta Mèliso sull’aspra scogliera della sorella Punta Rìstola, ai confini estremi del mondo, là dove il mare si unisce con il mare e spalma lentamente sul Salento le sue essenze di storia e di poesia.


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