Ma cos’era quella cosa là in fondo? Sembrava una figura umana, completamente vestita di bianco, in piedi al centro della strada qualche centinaio di metri più avanti. Una donna. L’uomo rallentò fino a fermarsi. Era decisamente una donna, vestita di un succinto abito bianco, forse una semplice sottoveste, immobile nel freddo della brughiera. I due uomini si scambiarono un rapido sguardo, increduli di fronte all’immagine che i loro occhi stavano faticosamente mettendo a fuoco, ed indecisi sul da farsi. Poi, improvvisamente….
Buongiorno a tutti! Oggi un post tranquillo qui su Obsidian Mirror, un post di puro intrattenimento per poter recuperare un po’ di energie dopo le fatiche derivate dall’intervista a Catherine Fisher di pochi giorni fa. Non avrei mai immaginato che intervistare qualcuno fosse così impegnativo: con mia grande sorpresa, ho realizzato che preparare un articolo del genere è tutt’altro che un gioco da ragazzi. Richiede prima di tutto un grande lavoro preliminare di studio (perché devi ovviamente conoscere la materia di cui parli) e, in secondo luogo, c’è tutta la parte che segue, vale a dire la traduzione dell’intervista e il post di presentazione che precede di qualche giorno quello in cui appare l’intervista vera e propria. Dopodiché va considerata anche tutta l’attività di “spam” sui vari social e, per la prima volta (non senza vergogna), ho fatto anche un po’ di “scouting”: in poche parole ho cercato in rete tutti i blog che, negli ultimi anni, hanno recensito Catherine Fisher e ho lasciato loro un commento con un link e un invito. Tirando le somme, seppur faticosa, è stata un’esperienza affascinante che mi ha regalato una grande soddisfazione. Avrei sperato magari in un risultato migliore in termini di visite e di commenti ma, come si usa dire, non si può avere tutto dalla vita.
Ma torniamo al post di oggi. Quello che ho scritto all’inizio è non l’incipit di un racconto, anche se così potrebbe sembrare. È invece la descrizione dei primi secondi di uno dei più singolari spot pubblicitari degli ultimi anni. Il committente è la Autoway Tyres, un’azienda giapponese di pneumatici. E da dove, se non dal Giappone, poteva arrivare una simile bizzarria? Lo spot intende sottolineare l’assoluta affidabilità del proprio prodotto anche nelle situazioni più pericolose ed imprevedibili, e lo fa utilizzando un messaggio che definire impattante è solo un eufemismo.
Lo definirei piuttosto terrificante, talmente terrificante che in un breve annuncio (quella scritta che appare nei primi secondi) si suggerisce agli spettatori più sensibili e impressionabili (nonché ai malati di cuore) di cambiare canale. Terrificante al punto che chi lo guarda ne esce talmente provato che ben difficilmente riuscirà, se interrogato, ad indicare quale prodotto si era inteso pubblicizzare.
Siete pronti? Lo spot è proprio qui sotto. Godetevelo dall’inizio alla fine ma, mi raccomando, non venite poi da me a lamentarvi se il conto del vostro cardiologo risulterà essere troppo salato.
Siete ancora tutti lì? Vivi e vegeti? Il polso com’è? Accellerato? Non preoccupatevi, tra poco probabilmente ritornerà normale e, se nel frattempo riuscite anche a recuperare la favella, mi piacerebbe che mi descriveste la vostra esperienza. Com’è andata?
Sono sicuro che nemmeno voi avete capito al primo passaggio di quale dannato prodotto questo spot stia parlando. Dovreste guardarvelo un’altra volta, magari azzeccando un fermo immagine negli ultimi secondi. Questa tecnica di visualizzare l’orrore non è certamente nuova per gli amanti di quel filone horror giapponese che ha tra i suoi capostipiti Ju-On e Ring, quei film con il classico tema del fantasma che cerca instancabilmente vendetta accoppando tutti quelli che capitano a tiro. Il breve spot di Autoway Tyres, così come i più articolati prodotti per il cinema, si basa su un preliminare silenzio in cui sono i piccoli rumori a creare l'atmosfera, dopodiché ecco che arriva, improvvisa, la rivelazione dell'orrore. L’efficacia è garantita.