Pupi Avati lascia dunque la città, con i suoi fumosi bar e le strade rumorose, e gli anni ’50, per fare un salto a ritroso nel tempo ed approdare all’epoca dei nostri nonni, in quell’Italia rurale e ruspante, che la liaison con il fascismo ha spesso offuscato e fatto dimenticare, ma che ha rappresentato un passaggio necessario e fondamentale nella crescita del nostro paese. Ecco dunque il regista accompagnarci, con il suo consueto garbo, un po’ da voyeur, un po’ da cantastorie, ad esplorare gli anni Trenta, periodo un po’ misterioso, ma molto affascinante, in cui le donne avevano un cuore grande e rassegnato all’adulterio, ed in cui l’infedeltà era congenita al matrimonio, indotta dal virile modello sociale dell’ideologia fascista e giustificata con un imperativo bisogno fisiologico di sesso. Avati si muove abilmente sul piano di una consolidata nostalgia e, attraverso la storia d’amore tra un giovanotto farfallone e simpatico ed una giovane donna ingenua e timorata di Dio, ci fa da cicerone nel raccontarci una filosofia sociale, quella dello stato fascista che tutto fagocita e vuole indirizzare, a partire dalla famiglia e dalla ripartizione dei ruoli al suo interno.
È dunque antropologia politico-storica quella con cui il Maestro bolognese finisce per raccontarci lo zelo antifemminista della dittatura fascista, che relegava la donna al focolare domestico, esaltandone la maternità a sostegno della forza dello Stato nazionale, inibendo nel contempo l’affermazione degli interessi individuali. La storia di Carlino e dei genitori in continuo contrasto, splendidamente resi da Gianni Cavina e Andrea Roncato, convincenti e credibili nelle loro solide interpretazioni, finisce per essere la storia di uno dei tanti spiriti semplici che hanno attraversato le pellicole di Pupi Avati, forse anche troppo elementare, affettivamente povero, e convinto assertore della naturale diversità tra uomini e donne ad evidente vantaggio dei primi, rappresentati però, e, sempre, come meschini, detestabili, puttanieri, ninfomani, fanatici cacciatori di sottane. Le donne che, di contro, emergono da questo racconto, ma soprattutto da questa lontana porzione di Storia italiana, sono anch’esse estremamente variegate e bivalenti, mamme in cucina e zitelle in attesa, ragazze da sposare e puttane da comprare (e poi naturalmente disprezzare).
Un film che si fa ammirare dunque, a patto di distaccarsi da un presente volutamente lasciato fuori, anche se tuttavia non risolve completamente i conti con il passato, finendo per assumere la dimensione di una favola antica su un mondo che non c’è più, non completamente esplorato e giudicato, ma sufficientemente appagante e suggestivo, che rifulge di quella poetica nostalgia che ne fa un gioiellino da serbare, pur con gli interrogativi aperti e rimasti irrisolti e pur scontando una lentezza a volte tanto eccessiva da apparire manierata. Una menzione a parte merita infine Cesare Cremonini, al suo esordio d’attore, che riesce a rendere in tutta la sua scanzonata mediocrità un personaggio particolare come quello di Carlino senza mai scendere nel ridicolo caricandone eccessivamente i toni.