Puse’ i studien, puse’ i diventen scemi*

Creato il 27 maggio 2011 da Masedomani @ma_se_domani

*più studiano, più diventano scemi

Ho pensato a lungo a come introdurre questa recensione, poi mi son sovvenuta di questa frase che mio nonno paterno, scuotendo la testa, ripeteva ogni volta che qualcuno, più qualificato di lui, sbagliava un progetto, un lavoro, un calcolo.
Aveva solo la 5^ elementare, ma era intendente capo di una gigantesca azienda agricola, gestiva uomini, animali, profitti e una famiglia: inoltre amava la pasticceria fine, i cibi ben conditi, fare giri in vespa e piccole gite, cose così.

Ho deciso di usare questa frase come titolo alla recensione del libro “Togliamo il disturbo” di Paola  Mastrocola perché… perché è quello che avrebbe detto lui, di fronte al corrente sfascio della scuola italiana.

Sia ben chiaro, io non sono qui a distribuire meriti e colpe, ma dopo 19 anni come studente e 11 come docente (più una formativa parentesi aziendal-congressuale dai 25 ai 28 anni) qualche opinione in proposito credo di poterla esprimere.

Orbene, oggi a scuola si va “per stare bene”: via il disagio, via la fatica, via lo studio e l’impegno… in un accesso di malinteso “donmilanismo” (lui  garantiva a tutti la possibilità di studiare a prescindere dal reddito, ma se poi non ci si applicava realmente, erano dolori!) ai ragazzi chiediamo quello che già sanno, e poco più… la storia del quartiere alle scuole elementari, cartelloni, teatrini, laboratori, via la terribile ortografia, sostitutita con la “riflessione linguistica” (ma cosa rifletti cosa? Una regola è una regola, non un’opinione!), via studiare la lezione, i nessi logici causa-effetto, via i riassunti, così poco creativi, via i temi, così faticosi… via la lettura ad alta voce che può imbarazzare e traumatizzare… via il corsivo che è un’inutile imposizione… non è capace? Come minimo è dislessico…

… beh, io dico una cosa sola: lo studio è consolazione, ma è anche disagio.
Lo studio vero, intendo, non quella patina di pseudo-cultura con cui pitturiamo i ragazzi che escono dalla scuola dell’obbligo.

Eh, già, l’obbligo: quando spiego ai miei allievi che in origine aveva come scopo impedire ai contadini di spedire i figli al pascolo, nei campi e in risaia, invece che fra i banchi, restano basiti.
Tutti credono che serva per evitare le bigiate…

E non raccontatemi che adesso “ci sono gli stranieri in classe, come fai a portare avanti un programma”: alcuni dei miei alunni più bravi sono indiani, rumeni, baschi…
I ragazzi stranieri sono esattamente come i nostri: se han voglia studiano, se non ne hanno, no.

Beh: per tornare al libro, il nocciolo centrale, la triste riflessione dell’autrice è che, nonostante il benessere e il permanere dei ragazzi almeno 10 anni a scuola, nonostante le magnifiche sorti e progressive, internet e via dicendo, i ragazzi sono mediamente più ignoranti dei loro nonni – che, ricordiamolo, arrivavano in prima elementare parlando, di base, solo il dialetto – e che la preparazione di un licenziato di terza media corrisponde, più o meno, alla quinta elementare degli anni ’60.

E, all’uscita da questa fantomatica terza media, dopo un’esame che dura una settimana, con 6 scritti e un orale totalmente finti, la metà delle famiglie iscrive questi fanciulli… al liceo.
Per poi condurli stentatamente all’Università, fra mille ripetizioni, debiti, crediti e puntelli, e ottenere una laurea breve in una facoltà cosiddetta “debole” (cioè non Medicina, Lettere, Legge, Economia, bensì Comunicazione, Antropologia, Beni Culturali e via dicendo): una facoltà che non offre alcuno sbocco nel mondo del lavoro, perché non corrisponde ad alcuna professione richiesta dal mercato. Una laurea buona da appendere in salotto…

In sintesi, per concludere, mi ha fatto male leggere l’opera di questa autrice, perché ha purtroppo unito i vari tasselli che giacevano sparsi nella mia mente a comporre un puzzle che non mi piace , che mi fa sentire inutile, e che fa venire voglia di dire anche a me: tolgo il disturbo.

Ma se scavo nell’amarezza, trovo una riflessione ancora più sconsolata e amara: ai ragazzi diamo una scuola senza futuro, perché glielo abbiamo tolto.
Diamo una scuola ricca di attvità opzionali e in cui “si stia bene” perché i genitori non hanno più tempo, energia o voglia di seguire i figli, e allora dobbiamo offrire un parcheggio gradevole nel quale lasciarli da mattina a sera.

E con l’espressione “abbiamo tolto il futuro” intendo dire che, in una società stagnante e “priva di padre” – passatemi il termine – come la nostra, noi non abbiamo bisogno di giovani che escano agguerriti da scuola, ben decisi e orientati verso una scelta di vita: no, noi abbiamo bisogno di formare degli individui demotivati, privi di competenze, flessibili possibilmente fino a mettersi a novanta, da sbattere da un call center all’altro, da un catering a un servizio hostess, da un help desk a un volantinaggio.

E a questo punto, preferisco non dire altro: rileggendo il pezzo, mi rendo conto di quanto sia contro-tendenza e politically uncorrect, disallineato rispetto alla didattica per competenze, alla progettazione modulare e agli obiettivi del Consiglio d’Europa in materia d’istruzione… ma vedo anche, con gli occhi della mente, il nonno che mi strizza l’occhio e mi sorride…


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