Regista: Spiros Stathoulopoulos
Attori: Hugo Pereira, Daniel Páez, Alberto Sornoza
Paese: Colombia
Generalmente preferisco la forma impersonale nel recensire un film, come il rispetto di una certa struttura. Questa volta invece scriverò in maniera più diretta, un po' per necessità un po' per le sensazioni che mi ha lasciato la pellicola. Del resto quello di Stathoulopoulos è un film assolutamente fuori dal comune. Per me, poi, è ulteriormente spiazzante, essendo lo stesso ad una distanza siderale da quegli elementi che reputo essenziali perché un un prodotto cinematografico risulti ai miei occhi riuscito o perché, più semplicemente, incontri i miei gusti; elementi che possono in buona sostanza racchiudersi nella finzione filmica, per quel che mi riguarda fondamentale. Per quanto infatti una pellicola possa mostrare una regia scarna, un fotografia minimale, un montaggio del tutto lineare e più in generale un volto realistico, è necessario che resti aderente ad una finzione narrativa che la separi sempre e comunque dalla mia percezione della realtà.Ciò che accade in “PCV-1” è l'esatto contrario, tanto che ha in teoria tutte le carte in regola per appartenere al tipo di cinema che resta per me un mero esercizio di stile, privo di coinvolgimento emotivo e quindi inevitabilmente noioso. Peccato che la teoria sia allegramente andate a puttane con questo esordio folgorante, girato da un ragazzetto che al tempo ancora non aveva 30 anni.
Un unico piano-sequenza, senza stacchi, né montaggio. Aveva inaugurato una simile genialità tecnica Hitchcock quasi 60 anni prima, seppur servendosi del falso piano sequenza per ovvi limiti imposti. In quel caso, tuttavia, il thriller aveva ogni aspetto cinematografico che si potesse chiedere, essendo il cinema del regista un inno alla finzione di cui si scriveva. In questo caso, al contrario, si è molto più vicini ad una video-testimonianza per sviluppo, tempi e regia, l'unica differenza è che appunto quella di Stathoulopoulos è un'opera di fantasia, per quanto basata su fatti realmente accaduti. La distanza tra cinema e realtà diviene pertanto pressoché nulla e non ci sarebbe quindi da meravigliarsi laddove la pellicola non generasse una risposta emotiva. Ed è questo infatti quanto accaduto nel mio caso. Nel mio caso è però accaduto anche che la noia non mi abbia sfiorato nemmeno per un istante. Pur essendo il racconto privo di pause, violento e carico di tensione (almeno nell'ottica dei suoi protagonisti) non crea empatia; sta addosso ai suoi protagonisti in maniera spesso claustrofobica ma non trasmette emozioni dall'altra parte. Tuttavia non stanca, mai. È quasi paradossale, o se non altro lo è per me e per il mio modo di affrontare una pellicola. Sembra un servizio giornalistico di qualcuno che è riuscito a rendersi invisibile agli occhi circostanti e a seguire i protagonisti senza mai perderli. Stranamente, però, è proprio questo a tenere in piedi la pellicola e a svolgere il ruolo generalmente ricoperto dall'empatia. Si sviluppa una curiosità morbosa sul prosieguo della storia, quella stessa curiosità che porta la gente ad accalcarsi su video rubati e messi in rete di un'esecuzione, di una rapina, di una rissa o di un omicidio; se sia malsana, criticabile, naturale non è importante, non in questa sede, ciò che interessa è che appunto, come si diceva, tiene incollati allo schermo nonostante la lontananza emotiva. Ad affiancarsi ad essa e a contribuire fortemente all'interesse nel prosieguo, una regia impressionante. Non si esaurisce certo nella scelta in sé del singolo piano-sequenza. Quello di Stathoulopoulos è uno sguardo registico che non risulta mai, in nessun passaggio, confusionario, benché sarebbe stato in caso contrario giustificato molto più di coloro i quali con milioni di dollari girano thriller affetti da convulsioni, cosa che il regista non fa neanche per sbaglio. E non solo. Opta nel mentre per soluzioni tecniche capaci in parte di rendere più reale e credibile il racconto e in parte di spezzare un linguaggio registico che senza quelle soluzioni avrebbe potuto facilmente stancare lo spettatore: allontana la telecamera scegliendo traiettorie diverse da quelle dei protagonisti, senza però mai perderli di vista; li separa per brevissime parentesi durante la fuga, sì da concentrarsi su uno dei personaggi e lasciare gli altri fuori dall'inquadratura, contrastando la perenne presenza dei tre; sfrutta efficacemente il fuoricampo, tanto che da obbligato diviene funzionale; gestisce, infine, periodi, che periodi non sono considerata la struttura, senza che si percepisca alcuna incongruenza nella continuità della narrazione.
Non dovrebbe esserci bisogno, stando a quanto scritto, di soffermarsi su considerazioni ovvie relative al lavoro enorme che c'è dietro una costruzione simile: dalla gestione degli attori, alla bravura degli stessi; dalla messa in scena in un unico tempo di tutte le scelte pensate in precedenza, alla coordinazione generale. Quindi non lo farò. Ciò che invece farò è elogiare in maniera più o meno lapidaria la chiusura per la quale opta il cineasta greco, che cambia registro e mette in scena una vera e propria deflagrazione emotiva: la presa diretta lascia il posto ad un fischio in sottofondo, un suono riempie quasi del tutto la parte finale dell'unico pianosequenza, e un dettaglio mozza completamente il fiato.
Un paio di difetti ci sarebbero anche, ma assolutamente insignificanti dinanzi al risultato finale, perché l'esordio di Stathoulopoulos è allucinante. Lui ci ha fatto il piacere di regalarci una simile pellicola e voi, come minimo, la guardate. Grazie.
Ringrazio Eraserhead per la segnalazione. Qui la sua recensione, che fornisce peraltro un punto di vista in parte diverso dal mio.