Tuttavia la poesia di Emily Dickinson raggiunge vette di tale trascendenza che chi legge oggi fatica a credere possibile la sua umanità di allora, a credere possibile che la sua effettiva scelta di indossare, a un certo punto della vita, un abito bianco rinunciando a ogni possibile via di fuga da un’esistenza giocata da sempre e per sempre nello spazio ridotto di due case che si affacciavano sullo stesso giardino, fosse regolata da politiche molto più terrene di quanto la leggenda nata intorno alla figura di Emily Dickinson lasci supporre.
E’ singolare anche ciò che accadde alcuni anni dopo la morte di Emily, nell’ambito della disputa legale animata dalle figlie delle due persone che nella seconda parte della vita della poetessa avevano intricato ancora di più i già complessi rapporti che deregolavano l’andirivieni nel giardino Dickinson. Per Martha, la figlia di Austin Dickinson, fratello di Emily, quella stessa Martha che la zia appellava alla nascita con una sorta di ironia precognitrice “Marziale Martha tamburo e bandiera insieme”, la quale ambiva a accaparrarsi la curatela delle opere della parente, Emily è esattamente quello che la leggenda, tutelata dal rogo di molte lettere probabilmente compromettenti, afferma che sia: la donna castissima che abbraccia la poesia preferendola alla mondanità. Per Millicent, invece (la figlia dell’amante ufficiale di Austin, Mabel, alla quale Lavinia Dickinson, la sorella della poetessa, aveva affidato l’incarico di redigere la prima edizione delle poesie immediatamente dopo la morte di Emily) Dickinson è un’eroina moderna, una sacerdotessa pagana e disinibita, un’integralista che conduce fino alle estreme conseguenze il suo gioco.
Vista da qui Emily Dickinson si trova e rimarrà sempre nell’aura geografica della casa del padre, quel luogo però si trova nel Massachusetts non molto distante da quella Salem in cui poco più di un secolo prima della nascita di Emily, nel 1692 furono uccise 22 persone, quasi tutte donne, con l’accusa di stregoneria da un tribunale istituito legalmente. In una sorta di isteria collettiva in cui la realtà era stata mistificata forse intenzionalmente dall’uso ambiguo della parola Dio, furono infatti bollate con il marchio di strega alcune donne che vennero credute in diretti rapporti col diavolo in una comunità che nel diciassettesimo secolo, in quel luogo come in Europa, a detta di Margaret A. Murrey, viveva le conseguenze di un retaggio pagano (di cui la poesia di Emily mi sembra suggerire una vasta eco) ben radicato, che poteva ancora nutrirsi nelle piccole pratiche domestiche di riti tributati a culti di divinità non cristiane.
Quando Emily Dickinson incontra Susan, colei che sarà la moglie di Austin e la madre di Martha, ha circa 18 anni e si innamorerà perdutamente di lei che sarà la destinataria di 276 poesie scritte nell’intero arco di una vita, alcune delle quali vibranti di accenti erotici inequivocabili. Emily poco più che adolescente intorno al 1850 già gode di una singolare consapevolezza riguardo la natura dei propri desideri e delle proprie visioni che le perveniva non certo da un’esperienza che non poteva aver maturato ma da un temperamento completamente al di fuori dei parametri pubblicamente accettati in quel luogo e in quel tempo.
“Caro … mi sembra di scrivere al cielo … mentre altri vanno in chiesa, io vado alla mia chiesa, perché non è forse vero che sei tu la mia chiesa e siamo in possesso di un inno che nessuno al di fuori di noi conosce?”. Mi chiedo: le sarebbe stato davvero possibile, qualora avesse voluto, pubblicare e difendere pubblicamente versi che passavano disinvoltamente dall’amore omosessuale a dichiarazioni di ardore pagano nei confronti di una fantomatica figura maschile intercambiabile con quella di dio padre? Se avesse stabilito di fare ciò abbandonando le dinamiche nascostamente luciferine del giardino di casa sua, che pure le appartenevano, chi avrebbe salvato Emily dal rogo? Chi sarebbe stato così politicamente potente da tutelarla se su quella gogna pubblica, in quella stessa America, a meno di un secolo dalla morte di Emily era stato sul punto di soccombere anche Arthur Miller, già intellettuale accreditato al grande pubblico, che si era macchiato della colpa di essersi richiamato con un dramma teatrale ai fatti di Salem al fine di stigmatizzare metaforicamente l’atmosfera tra il pretestuoso e l’isterico che dalla caccia alle streghe, in quegli anni si era trasformata alla caccia legalizzata al comunista promossa dal senatore Joseph McCarthy. Miller astutamente si difese e accrebbe in reputazione propugnando come uno dei principali diritti di un artista la libertà alla rappresentazione di se stesso in funzione di quella che crede essere di volta in volta la realtà che poeticamente rappresenta attraverso l’opera. Ma Arthur Miller era un uomo e già famoso. Si trovava in procinto di sposare Marylin Monroe ed erano comunque passati tre secoli dalle vicende di Salem.
Nella poesia di tutti i tempi, raramente pensiero poetico e esistenza hanno raggiunto una simile prossimità come in Emily Dickinson. Che la sua esperienza umana resti avvolta nel mistero conta fino a un certo punto al cospetto del monumento incalcolabile che è costituito dalla sua opera poetica. D’altro canto però tutte le forme esplicite di ribellione diventano presto retorica della ribellione e mi piace credere che Emily abbia agito in un certo modo perché più di ogni altra cosa disprezzasse ciò che emana da quella particolare forma di volgarità che è la retorica dei ruoli, convinta quasi da subito che in ogni realistica mancanza di alternative, sia la separazione da ciò che serve, a abbattere in modo definitivo ogni forma di impotenza.
*
Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!
Che grande peso essere Qualcuno!
Così volgare – come una rana
che gracida il suo nome – tutto giugno –
ad un pantano in estasi di sé
*
L’anima sceglie i suoi compagni
e poi chiude la porta
la sua divina maggioranza
estranei non sopporta.
Impassibile, sente il cocchio che si ferma
presso il cancello esterno.
Impassibile, guarda un re protrarsi
dal suo tappeto.
So che da tutto il mondo
può scegliere uno solo:
chiudere le valve poi dell’attenzione
come se fosse pietra.
*
Date un po’ d’angoscia
e ogni vita si ribella.
Datene una valanga
e le vite si piegano,
si raddrizzano cercano prudenti
di riprendere fiato, ma non dicono sillaba –
come la morte
che mostra solamente il suo disco marmoreo:
segno sublime più della parola -
*
Troppo felice sarei stata, credo –
troppo in alto per il modesto accordo
che delimita il raggio di una vita –
Questa circonferenza nuova avrebbe
svergognato il mio piccolo circuito –
Biasimato l’angustia precedente
Troppo al sicuro sarei stata –salva –
troppo da me lontana la paura
per poter pronunciare la preghiera
che ieri conoscevo così bene –
quell’unica bruciante Sabachthani
recitata a memoria in questa vita –
La Terra sarebbe stata troppo –
e il cielo per me misera conquista -
avrei posseduto la gioia
senza il timore – per giustificarla –
la palma senza il Calvario –
E’ giusto Dio che tu mi crocefigga –
Dicono che la pena affini la vittoria –
e nel vecchio Getsemani gli scogli
raddoppiano la gioia dell’approdo!
Chi è stato mendicante apprezza il cibo –
e dall’arsura acquista i gusto del vino –
la fede piange – per poter capire!