Qualche riflessione sull’IJF14 di Perugia

Creato il 04 maggio 2014 da Davideciaccia @FailCaffe

Il festival è un’occasione per incontrare non soltanto grandi nomi del giornalismo mondiale ma anche e soprattutto per chiacchierare con giovani giornalisti sparsi in tutto il mondo e scoprire nuovi metodi d’indagine e collaborazione.

di Camilla Cupelli

Italy and Spain are usually the worse places to find found: we’re too poor to be rich and too rich to be poor” ha detto Mar Cabra ad un incontro sulle nuove frontiere del reportage, durante il Festival Internazionale di Giornalismo a Perugia.

Estrapolata dal contesto, la frase sembra essere banale, ma è invece di cruciale importanza per chi lavora nel mondo della comunicazione: Mar Cabra, una reporter investigative del centro ICIJ (International Centre of Invastigative Journalism), stava spiegando come ha ricevuto i fondi per un nuovo progetto di ricerca in diversi Paesi, combinando il reportage con le nuove frontiere del data journalism, e non riusciva a contenere l’entusiasmo per aver ottenuto il finanziamento dallo European Journalism Centre.

Il suo entusiasmo contagioso è stato al centro di diversi incontri del Festival, tutti in grado di lasciare a bocca aperta il giornalista medio italiano, per non parlare di chi, come me, ancora proprio giornalista non si definisce. Il lavoro svolto dall’ICIJ, in collaborazione con IRPI (l’unico centro investigativo italiano oggi attivo, guidato dal giornalista Leo Sisti e tenuti in vita da giovanissimi reporter), con altre centinaia di giornalisti in tutto il mondo, e con l’aiuto di James Ball del Guardian, sull’espansione della mafia in Germania non è solo un esempio di straordinaria dedizione al proprio lavoro, ma anche e soprattutto un’innovazione nel campo dell’esposizione dei risultati tramite grafici, mappe, insomma: ancora data journalism.

Questa nuova frontiera della comunicazione permea ogni discorso del festival: i primi incontri mattutini sono quasi tutti dedicati alla discussione su panel legati al tema, e la maggior parte dei workshop sono approfondimenti professionali sulle tecniche di mapping o sull’utilizzo di tools specifici per connettere i dati. Unico esperto italiano in campo: Guido Romeo, science editor di Wired in Italia. Mentre giornalisti di ogni parte del mondo chiacchierano di data journalism e whistleblowing come se masticassero queste nuove tecniche comunicative da sempre, l’Italia mi sembra arrancare un po’. Da quest’anno infatti l’ordine dei giornalisti ha reso obbligatorio un monte ore di formazione notevole per tutti i giornalisti professionisti o pubblicisti iscritti all’albo da almeno tre anni: molti dei corsi offerti direttamente dall’ordine, gratuiti, sono legati alla deontologia professionale, e quasi nessuno si occupa dell’uso di tecniche specifiche e spesso difficili come quelle legate alle nuove esperienze di raccolta e gestione dei dati. È vero che, come Mariana Santos cerca di fare in America Latina, nei Paesi dove non sono ancora state studiate a fondo queste tecniche la cosa migliore è connettere giornalisti e programmatori o designer per collaborare alla riuscita dei progetti di ricerca, ma è anche vero che se non si inizia a formarsi a fondo sul tema, si rischia di restare indietro anniluce rispetto ad un’informazione totalmente differente.

Il festival è un’occasione per incontrare non soltanto i grandi nomi come Zuckerman o Doig, ma anche e soprattutto per chiacchierare con giovani giornalisti sparsi in tutto il mondo, prevalentemente in Europa, e scoprire nuovi metodi d’indagine e collaborazione. Naturalmente il livello di conoscenza della lingua franca, l’inglese, è elevatissimo, il che permette generalmente una condivisione totale di intenti e riflessioni. Parlando con altri giornalisti, però, si notano anche i propri limiti: mentre un ragazzo tedesco che lavora a Zurigo con uno stipendio per me da capogiro mi racconta il disastro della carta stampata in Germania, che licenzia giornalisti a tempo pieno esternalizzando il lavoro a giovani reporter sottopagati rispetto al contratto nazionale e che superano il monte ore massimo previsto dallo stesso, mi accorgo che quel sottopagati impallidisce in confronto ai compensi di amici che lavorano con ritenute d’acconto che qui consideriamo quasi dignitose. Ma, naturalmente, non è tanto e solo una questione di soldi, bensì di progettazione.

Certo, non c’è affatto da scoraggiarsi: la sindrome è un po’ quella del piangersi addosso, e allora si cerca di non cadervi mai, guardando a giovani reporter come quelli di IRPI come a modelli da seguire e importare nelle redazioni di tutti i grandi giornali, e sperando che l’avanzamento tecnologico dei mezzi a nostra disposizione non dipenda per sempre da formazioni all’estero ma possa essere quotidianamente insegnato come base del buon giornalismo. Vi ricordate Offshoreleaks? Sono ancora i giovani di IRPI ad aver promosso una delle uniche uscite italiane della vicenda su L’Espresso. Ma forse la sindrome è un’altra: come mi spiega un giovane giornalista impiantato nel torinese, spesso soffriamo della FOMO, la fear of missing out. Mentre facciamo qualcosa, il resto ci sembra sempre più cool, e quello che stiamo facendo non è mai abbastanza. Convivo con questa paranoia da anni, e come me molte delle persone che conosco, ambiziose e forse in parte insoddisfatte, sempre in cerca del nuovo; ma in fondo, non è così male. Se è vero che la curiosità è la prima forma di filosofia, forse il motore del giornalismo potrebbe, in parte, essere proprio la FOMO. Accompagnata da una buona dose di competenza.


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