Qualcosa nell'aria
di Oliver Assayas
con Clement Metayer Lola Creton
Francia 2012
durata, 122
Parlare di se stessi e delle proprie esperienze è un’ arma a doppio
taglio. Per un verso la conoscenza dell’argomento aiuta nell’estensione
dei fatti, dall’altro il fatto di esserne stati coinvolti in prima
persona rischia di produrre una lettura poco lucida per eccesso di
emotività. Ancor prima di essere girato il problema di Olivier Assayas
rispetto a “Qualcosa nell’aria”, la sua nuova creatura, era proprio
questo. Riuscire a trasmettere un punto di vista personale sugli effetti
del 68 parigino senza diventarne parte in causa. Trasmettere l’emozione
di quei ricordi, ed al tempo stesso tempo mantenere la giusta distanza.
L’assunto in questo caso aiutava, perché la storia del gruppo di
liceali impegnati a tenere vivi gli ideali del maggio sessantottino si
collocava "non lontano dalla Parigi del 1971" — ma comunque fuori dalla
capitale — identificandosi con le prospettive di una generazione che
aveva vissuto quel periodo attraverso il resoconto dei fratelli
maggiori. C’erano quindi le premesse per far rivivere un momento
cruciale della nostra storia mostrandone entrambe le facce, con i sogni e
contraddizioni ugualmente distribuiti nel corso della vicenda. Sul
piano strettamente filmico si si trattava in definitiva di far convivere
la rappresentazione dei fatti di cronaca e di costume, in sostanza la
componente oggettiva dell'opera, con uno sguardo personale che il
regista francese decide di far arrivare mediante le vicissitudini di
Gilles, una specie di alterego del regista, e del suo gruppo di amici.
Il film in costume e di costume, si doveva intrecciare con il romanzo di
formazione (dei protagonisti, alle prese con una storia di "passaggio")
mettendo in moto un cortocircuito emozionale derivato sia
dall’immedesimazione con il contesto ambientale, sia dalla messa in
discussione di quegli ideali che il film da una parte esalta attraverso
l’eccitazione provocata “dall’aria di cambiamento” a cui il titolo
accenna, e dall’altra sconfessa con il jaccuse che Gilles e compagni
legittimano mediante il progressivo disimpegno. Una frattura che il film
fa arrivare a metà strada, durante il viaggio in Italia organizzato per
sfuggire alle grinfie della polizia che li tiene sotto tiro, con la
scena in cui il protagonista, ragazzo talentuoso con una particolare
predilezione per il cinema, discute sulle conseguenze di una lotta di
“liberazione” diventata paradossalmente strumento di morte (in quel
periodo la guerra del Vietnam e la rivoluzione culturale cinese mietono
vittime innocenti) che opprime le classi sociali più deboli. Da quel
momento, complice anche l'introduzione dell'elemento sentimentale che
porterà alcuni di loro ad inseguire uno stile di vita vicino a quegli
ideali borghesi tanto criticati ma inevitabilmente impressi nel dna
degli interessati, il film diventa frammentario, perdendo la compatezza
che inizialmente aveva favorito la dialettica tra ambiente e personaggi.
Tutto risulta episodico e fin troppo programmatico nel trasformare i
singoli filoni narrativi in situazioni paradigmatiche, collocate a
mosaico per dare vita al nostalgico presepe: dall’amore libero ripreso
nella fragilità dei legami – di Gilles tanto per fare un nome, i cui
rapporti amorosi si chiudono senza un reale perchè – alla droga, assunta
come mezzo per sfuggire ad un quotidiano altrimenti insopportabile, dal
richiamo esercitato da un'altrove seducente e salvifico rappresentato
dal lontano oriente (ed il riferimento all' Afghanistan come paradiso in
terra la dice lunga sul passare del tempo e degli uomini)
all’importanza dell’arte, trait union che riduce gli effetti della
diaspora amicale e funziona come sublimazione alla delusione
dell’attivismo politico. A Convincere poco è anche la recitazione degli
attori, tutti alle prime armi ad eccezione di Lola Creton, già vista ne
"Un amore di giovinezza" (2012), quasi in posa nell'assolvere le
esigenze del copione. Premiato per la migliore sceneggiatura all'ultimo
festival veneziano