Qualcosa nell’aria, après mai

Creato il 15 febbraio 2013 da Ilcasos @ilcasos

Qualcosa nell’aria, di Olivier Assayas, Francia, 2012, 122 min. (colore)

Locandina del film

Cominciamo dal titolo. In francese è Après mai, dopo maggio, titolo emblematico tradotto in italiano con uno scialbo Qualcosa  nell’aria, forse per renderlo più frizzante, forse perché quel maggio il pubblico delle sale italiane non sa nemmeno cos’è mentre i francesi se lo ricordano bene, ricordano che dopo maggio le cose non tornarono esattamente come prima, come sperava De Gaulle.

Il regista (Olivier Assayas) realizza un cine-romanzo di formazione autobiografico e a tratti nostalgico, in cui il protagonista diciassettenne vive le contraddizioni del suo tempo senza lanciarsi mai a capofitto nella vita, come afferma lui stesso in una delle sequenze finali. Figlio dell’alta borghesia francese (il padre scrive sceneggiature per la tv) sogna di diventare regista ma nel frattempo si dà alla pittura, alla politica senza convinzione. Emblematica la scena in cui incontra dei “compagni” cineasti di una decina d’anni più grandi di lui e lo ammoniscono su quello che legge, dicendogli di stare attento perché ci sono libri che la propaganda imperialista mette in circolazione per non far scoppiare la rivoluzione. Un dialogo che a trent’anni di distanza ci fa sorridere ma che, preso con i dovuti accorgimenti, ci ricorda che il clima, che ci piaccia o no, era quello di forte politicizzazione. E di utopia.
Forse una delle scene più brillanti e senza particolare retorica è quella iniziale: una manifestazione non autorizzata in cui la polizia parigina a cavallo e a piedi spara lacrimogeni e proiettili gommati sui ragazzi che scappano e cercano rifugio.Un inno alla violenza, appena accennato, che ripropone la drammatica pantomima della repressione di Stato: il gaullismo e le barricate del quartiere latino erano vivide nella mente delle persone nel 1971.

Per il resto il film è un pallido ritratto dei giovani degli anni Settanta, non molto diversi dai giovani di oggi, se togliamo internet, telefonini e la netta sensazione che oggi si sfoglino meno libri e riviste: questi giovani sono confusi, ingenui, spaventati dal futuro, vivono situazioni precarie e scelte difficili, ma quelli erano gli anni Settanta, che si portavano appresso ancora gli strascichi dell’”età dell’oro” appena conclusasi. Uno scarno come eravamo (mi perdonerà Sidney Pollack) che genera sospiri tra quelli che erano adolescenti allora, come mi è successo con la coppia che vedeva il film al mio fianco e non ha smesso di commentare ogni singolo fotogramma, e fa restare a bocca asciutta chi si era immaginato un film più d’impatto. I vari Paz, Radiofreccia e Lavorare con lentezza non hanno nulla da invidiare a questo film.
In mezzo due ore in cui si spalmano monotoni dialoghi e monotoni cliché nemmeno ben esplicati: “terrorismo” che si risolve in bravata tra amici, politica totalizzante, ideali rivoluzionari , droghe, cinema impegnato, arte, viaggi in Nepal, sesso, hippies dell’ultim’ora e sciamani improvvisati. Un guazzabuglio dolce-amaro dove i personaggi accennano ognuno ad un idealtipo giovanile: c’è l’artista che si rinchiude nel suo atelier a dipingere perché l’arte è vita, c’è il ragazzotto più politicizzato(che nei tratti ricorda Daniel Cohn-Bendit, Dani le rouge, leader del 68′ francese), c’è la ragazza che si avvicina al movimento femminista e quello che lascia tutto per andare in Afganistan per ritrovare se stesso.
In compenso la scenografia, i vestiti di scena e la musica sono perfetti. Però questo non era un compito impossibile se si raccontano quegli anni in cui a farla da padrone sono Syd Barrett (Terrapin in particolare), Bob Dylan e i Rolling Stone.
Cosa impariamo quindi dagli anni Settanta? Gli ideali rivoluzionari sono spariti, qualcuno è morto di overdose, la musica era fantastica, l’arte era politica. Ci viene il dubbio che quegli anni furono qualcosa di più.
Insomma, come si direbbe di molti studenti “è intelligente, ma non si applica”.

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