All'inizio del 2015 celebravamo su queste pagine il ritorno della GrandItalia nel calcio europeo: Fiorentina e Napoli semifinaliste in Europa League e Juventus alla prova del Real Madrid nel penultimo atto della massima competizione continentale.
Il parziale risveglio europeo sembrava testimoniare un sincero ridestarsi della qualità media: dalle piccole oasi di provincia – Empoli, Sassuolo – fino alle grandi realtà di Genova, Firenze, Roma (sponda Lazio) e Torino.
Meno di un anno dopo assistiamo alla peggior campagna nelle coppe da una quindicina d’anni a questa parte: siamo ripiombati nel buio dei primi anni Dieci – quando vedere un’italiana superare i gironi eliminatori autunnali era un miracolo? Credo di no, che quella fase l’abbiamo realmente superata: prova ne è il fatto che in Italia, in qualche modo, si giochi meglio rispetto a un paio di stagioni fa.
Il problema della competitività, però, resta: come spiegare il flop di Juventus, Roma, Napoli, Lazio e Fiorentina?
La sensazione è che, con un po’ di elasticità mentale, si possa dare una risposta comune.
Incominciamo dagli ultimi eliminati, i biancocelesti di Pioli. Si tratta dell’eliminazione più cocente, lo 0-3 casalingo contro lo Sparta Praga, ma meno paradigmatica per la comprensione dello stato dell’arte del calcio italiano.
Non c’è niente di prettamente calcistico in quello che sta succedendo a Roma in questa stagione. Pioli vive la tipica “crisi del secondo anno”, un classico della gestione Lotito. Il presidente mette a disposizione del tecnico che si è guadagnato l’Europa nella stagione precedente – addirittura la Champions League nel caso di Pioli – una rosa che, nella migliore delle ipotesi, è stata solamente conservata.
L’ambiente romano, così facile tanto agli entusiasmi quanto alle depressioni, fa il resto. In una squadra senza obiettivi e senza orizzonti – quanti resteranno al termine della prossima estate? – queste figure da pellegrini (cit.) sono all’ordine del giorno. La società non riesce a fare quadrato attorno ai giocatori, l’ambiente contesta Lotito da almeno dieci anni – con coerenza, devo dire: nella buona e nella cattiva sorte – e Pioli naviga a vista sapendo che il prossimo passo falso gli varrà un probabile esonero e che comunque del suo progetto non resterà molto: tra qualche mese si dovrà cercare una nuova panchina.
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Sarri ha pagato un calo di forma nel mese di Febbraio e il Villareal, quarto di Spagna in questa stagione, ne ha approfittato. Il Napoli ha un problema di profondità della rosa e di rotazioni, ma credo che la differenza l’abbia fatta la testa: mai come quest’anno lo scudetto è possibile e forse la concentrazione sull’impegno europeo non è stata massima.
La Fiorentina, invece, ha fatto il massimo. Il Tottenham, in lotta per il titolo in questa folle annata di Premier League, le è superiore. D’altronde, che la seconda d’Inghilterra sconfitta piuttosto nettamente la quarta-quinta d’Italia non è un fatto che possa meravigliare. Paulo Sousa ha pagato le aspettative costruite da settembre a febbraio, quando la sua squadra giocava un calcio ficcante ed efficace proponendosi con qualità e personalità su ogni campo. La rosa è però quella che è: Kalinic vale forse Kane? E Badelj Eriksen?
E poi veniamo alle italiane di Champions, Roma e Juventus. I giallorossi, riacquisita una logica di squadra con Spalletti, hanno affrontato a viso aperto il Real e ne sono usciti con indicazioni contrastanti: tante occasioni da gol, applausi e complimento per un gioco che ha saputo dominare gli uomini di Zidane, ma anche quattro gol al passivo e nessuno all’attivo. C’è evidentemente qualcosa che non va, da rintracciare nel disequilibrio della rosa romanista.
Sabatini, uno dei migliori talent-scout del calcio italiano, sta lentamente fallendo la prova “della grande squadra”. La Roma era stata pensata per un allenatore, Garcia, e un per uno schema di gioco: il 4-3-3 con ai lati dell’attacco due giocatori rapidi e una punta centrale che all’occorrenza poteva essere un rifinitore, Totti, o un centravanti classico, Dzeko. Dopo il 6-1 Barcellona, Garcia ha perso il controllo dell’ambiente; il suo esonero è stato fin tardivo.
Spalletti, subentrato a metà gennaio, ha giustamente preteso che, a mercato ancora aperto, la dirigenza gli venisse incontro. Sono arrivati Zukanovic, El Shaarawy e Perotti – peraltro già indicati dal tecnico francese –, poi tra i migliori in questo scorcio invernale di campionato. L’ex tecnico di Udinese e Zenit ha dato subito una nuova forma ai giallorossi: più elegante e soprattutto più efficace, vista la rimonta in campionato. I dubbi, però, restano.
Al di là dei tentativi quasi psicoterapici di non perdere del tutto l'ex City, è chiara la preferenza di Spalletti per un attacco composto da mezze punte, brave con il loro movimento a creare spazi e a togliere riferimenti ai difensori avversari. Dzeko, che pur ha giocato diverse partite con il tecnico toscano, non ha quasi mai convinto. Spalletti ha più volte dimostrato, quando la scelta è stata libera – cioè quando l’esclusione del bosniaco non andava a inficiare direttamente l’investimento fatto dalla società in estate – di preferire Perotti, El Shaarawy e Salah. Tutto bellissimo, se non fosse che anche in Europa il falso nueve è passato di moda: da un paio di stagioni in Catalogna soggiorna un certo Suarez.
Posto che Florenzi è ormai a tutti gli effetti un terzino destro di spinta, bisognerebbe chiedere conto a Sabatini della cessione di Romagnoli. Cedere un giovane come l’ex Samp quando in difesa sei costretto a portare titolare Rüdiger – ora in ripresa, ma una vera sciagura per la prima metà di stagione romanista – e ad aspettare il rientro di Castan da un’operazione al cervello è operazione quantomeno discutibile anche se la cessione ha fruttato circa trenta milioni.
La Roma ha pagato i buchi all’interno dell’organico nello scontro con un Real Madrid mai come quest’anno abbordabile. In Italia, dove indubbiamente serve meno qualità, la Roma viaggia al terzo posto, incerta se guardare alle prime due o a quelle che immediatamente la seguono. Ma l’Europa ha dimostrato ancora una volta di essere un’altra storia.
E poi la Juventus, la migliore per distacco di questa nostra campagna europea, eliminata dal Bayern Monaco in un doppio confronto che, più che una classica trama di pallone, è sembrato il prodotto di un ingegno sadico.
Lo dico subito: la Juventus meritava la qualificazione molto più del Bayern e se gli arbitri avessero fatto anche solo parzialmente il proprio dovere Allegri avrebbe visto già iniziata la propria causa di beatificazione. Il Bayern, questo Bayern, è stato molto deludente – soprattutto nella versione senza Robben.
Detto ciò, siamo di fronte a una sconfitta: cerchiamo di capirne i perché.
Martedì 22 febbraio, Juventus Stadium: la Juventus sfida i tedeschi – grandi favoriti e non si sa bene su quali basi – lasciando a Guardiola il dominio del campo per almeno un’ora. Sullo 0-2, l’improvviso risveglio bianconero riporta il risultato in parità.
Il ritorno all’Allianz Arena dello scorso mercoledì inizia così come era terminata la partita dell’andata, ne sembra anzi la naturale prosecuzione. I portatori di palla del Bayern vengono presi d’assalto dagli juventini che per un tempo accorciano con grande ritmo e intelligenza. Lo 0-2 dei primi 55’-60’ certifica una supremazia sacrosanta e in qualche modo rende merito al nostro pezzo pubblicato il giorno prima in cui chiedevamo ad Allegri di impostare la partita proprio su queste linee guida. I bianconeri poi abbassano il baricentro portando i tedeschi a ridosso della propria area di rigore.
Sparito il pressing della prima ora, Lewandoski e Müller confezionano il 2-2. I gol di Alcantara e Coman nei tempi supplementari sono coltellate in un corpo già fortemente indebolito.
Allegri ha preparato la partita nel modo più opportuno: la soluzione del pressing sistematico già con Morata, Pogba, Cuadrado e Sandro ha permesso alla Juventus di non rinculare pericolosamente fino all’area di Buffon. È emerso un piccolo problema: al 60’ i bianconeri avevano finito la benzina; la rimonta bavarese è stata principalmente causata dal calo atletico.
Posta la disabitudine, Napoli a parte, delle italiane allo strumento del pressing, il problema va inquadrato oltre la contingenza della singola partita. Disputare un intero match rincorrendo avversari e pallone è più dispendioso che tenerlo (il pallone) tra i piedi e imprimere il proprio ritmo al corso del match. Non parlo tanto della possibilità di addormentare il gioco – strategia di cui in Italia si abusa –, ma proprio della possibilità, se in possesso di palla, di costringere l’avversario alle proprie scelte – giocate, direzione di corsa, decisioni, ritmo: tutto.
C’è un fatto: le squadre di Guardiola, le più dominanti da questo punto di vista negli ultimi 7-8 anni, non sembrano mai soffrire di stanchezza nel corso di un match e anche mercoledì scorso durante i supplementari, al di là dell’aspetto psicologico, erano decisamente più in forze. Eppure la retorica sulla durezza delle preparazioni fisiche con gli allenatori italiani dovrebbe tendere all’esatto opposto.
La conclusione dovrebbe essere logica; e dovrebbe essere una. L’europeizzazione dello stile di gioco della Juventus passa sì dall’applicazione – quasi dall’accettazione – del pressing alto, ma non basta perché lo stesso pressing non può che costituire una delle fasi di gioco, e non l’unica.
Parallelamente deve essere sviluppato un tentativo di acquisire il comando del gioco, di non limitarsi a una passività che, per quanto aggressiva ed efficace – e l’abbiamo visto in questi ottavi di finale quanto lo sia –, limita possibilità di gioco e prestazione atletica nell’arco dei 90’.
La Juventus di mercoledì, la Juventus di Allegri è una bellissima incompiuta. Bellissima, perché il 2-0 di Cuadrado sulla penetrazione a tutto campo di Morata è un gesto tecnico stordente; incompiuta perché, seppur con onore, i bianconeri hanno maturato una sconfitta. E visto che negli ultimi dodici mesi, le eliminazioni sono giunte con Barcelona e Bayern Monaco – le alfiere di questa vocazione al dominio statistico – è lecito pensare che due indizi possano fornire magari non una prova, ma perlomeno un suggerimento forte.
Il messaggio può essere tranquillamente esteso a tutto il calcio italiano. Certo, la Juventus, per qualità e appeal internazionale, è di gran lunga la più forte, in questo momento, e di conseguenza ha più possibilità di attirare quei talenti che possono darle la facilità di gioco necessaria al successo.
La sensazione, però, è che il cambiamento debba coinvolgere più la mentalità e l’approccio alle partite che il talento dei singoli – per intenderci: la Juve, a ranghi completi, non è qualitativamente inferiore al Bayern. La storia del Napoli, seconda a soli tre punti dai bianconeri, con un organico meno valido ma con un gioco molto più offensivo, qualcosa dovrebbe insegnarlo. E lo stesso, con le dovute proporzioni, vale per la Fiorentina di Paulo Sousa.
La svolta, per il calcio italiano, è a portata di mano. Sapranno coglierla i nostri tecnici? Alla prossima stagione europea la sentenza.
Maurizio Riguzzi
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