Fonte: http://www.controlacrisi.org
In un articolo precedente,[1] abbiamo visto che molti autori confondono l’aumento dei consumi con l’aumento dei consumi inutili, e quindi condannano proprio il frutto migliore del capitalismo: l’aumento della ricchezza e dei consumi, che ha prodotto l’incivilimento.
La ricchezza di una società è misurata dalla capacità di soddisfare i nostri bisogni. Quanto più numerosi e raffinati sono i suoi consumi tanto più una società è ricca. Ma non tutti i consumi contribuiscono ugualmente alla soddisfazione dei nostri bisogni. Alcuni vi contribuiscono molto, ad es. quelli necessari alla sopravvivenza e al comfort; o quelli che potenziano le nostre capacità, come l’uso di mezzi di produzione o di fonti di energia, oppure l’istruzione, la sanità, la ricerca. Altri invece, come i consumi di lusso, non accrescono la ricchezza sociale. I primi dunque sono molto utili; gli altri poco o per niente.[2]
Esistono quindi dei consumi inutili? Per la teoria economica dominante (quella neo-classica), no: ogni bene viene acquistato solo in quanto dà un’utilità. Ma questa tesi è doppiamente sbagliata. Innanzitutto perché un consumo utile per l’individuo può essere inutile o dannoso per la società. Secondo Pareto l’utilità misurabile è solo individuale, e prescinde dai giudizi di valore. Un’arma può avere per un individuo la stessa utilità che per un altro ha un libro o il pane, e l’economista non deve preferire una scelta all’altra (negli Stati Uniti di oggi Pareto trionfa).
Tuttavia, prima della teoria neo-classica, gli economisti hanno parlato per tre secoli di consumi che erano più o meno utili per aumentare la produttività e quindi la ricchezza sociale. Ad es. era utile il consumo dell’operaio che aveva i comfort minimi in casa; quello del professionista che studiava o accresceva la propria cultura; o dell’imprenditore che viaggiava per conoscere nuovi mercati o nuove tecniche di produzione. Invece era inutile il consumo dei ricchi oziosi in abiti sontuosi, cacce, balli e giardini. Infatti questo consumo non aumenta la capacità produttiva della società, come spiegano tutti gli illuministi. Anzi esso sottrae ricchezza all’accumulazione.[3]
Ma la tesi neo-classica è sbagliata anche per un altro motivo. La stessa utilità individuale ha un valore comparativo, non assoluto. Sempre più spesso il mercato non permette al consumatore di esprimere la sua vera preferenza, per dei consumi che sarebbe disposto a pagare (ad es. verde pubblico, treni efficienti, aria pulita, un territorio sicuro e non cementificato) e lo costringe a spendere quel denaro in consumi ripetitivi poco utili (televisore o abbigliamento alla moda, la nuova marca di biscotti, l’automobile con optional inutili). In questi casi – sempre più frequenti – l’utilità del bene che si acquista va misurata con quella del bene a cui si è costretti a rinunziare. Il risultato è che l’acquisto ha un’utilità negativa rispetto a quella potenziale.
Il consumismo è precisamente questo. L’acquisto indotto di beni sempre meno utili, in luogo di beni molto utili, dei quali c’è bisogno, ma che il mercato non offre. I consumi di lusso sono appunto quelli di scarsa o nessuna utilità sociale. Oggi ai consumi di lusso tradizionali (quelli dei ceti ricchi) si aggiungono i lussi di massa, cioè i consumi ripetitivi dettati dalla moda o dalla pubblicità, o imposti attraverso l’uso di materiali più deteriorabili (a parità di costo). Questo estendersi a dismisura dei consumi di lusso ha provocato la distorsione dell’economia.
I beni ripetitivi ci insegnano che non sempre la scelta del consumatore è libera (la “sovranità del consumatore”, sempre di Pareto, è un altro mito della teoria economica), e che il consumismo quasi sempre è imposto dalla produzione.
Quando parlavo di queste cose in giro per il mondo, c’era sempre qualche collega che mi chiedeva preoccupato: chi stabilisce quali consumi sono utili e quali no? Questa domanda, pur giusta, evocava foschi scenari di economia collettivista, dove il potere dittatoriale stabiliva l’utilità o meno dei consumi. In realtà è solo il mercato che può selezionare i consumi più utili. Ma per farlo deve dare possibilità di scelte effettive, offrendo anche beni collettivi (questi si pagano in altro modo, attraverso tariffe, tasse di scopo o titoli ad hoc).
Ciò significa che l’intervento pubblico è essenziale perché il mercato sia veramente libero; al contrario di quanto pensano i neo-classici, che ripetono la giaculatoria del “più mercato, meno stato” e scambiano il mercato selvaggio, che offre poche scelte, per un mercato libero.
[1] “L’aumento dei consumi non è consumismo”.
[2] Vedi ad es. Roger Mason, The Economics of Conspicuous Consumption. Theory and Thought since 1700, Elgar, 1998.
[3] Richard Cantillon, Essai sur la nature du commerce en général (1730), trad. ital. : Einaudi, reprint 1974. Pietro Verri, Considerazioni sul lusso, 1765 circa, in Custodi (cura) Scrittori classici italiani di economia pol., p.te Moderna, vol 17, pp. 339-40.