di Augusto Secchi
Io e il mio collega Diego Asproni abbiamo nei confronti della Limba Sarda Comuna opinioni diverse ma, chissà perché, l’esposizione delle nostre ragioni non ha mai infranto il muro del suono e della decenza. Se lui, legittimamente, sostiene che dopo anni trascorsi a bagnomaria era venuto il momento di quagliare una lingua scritta che accomunasse le varie anime linguistiche della Sardegna, io ritengo, credo altrettanto legittimamente, che quelle anime, straordinariamente combattive, non siano pronte a rinunciare alle loro specificità e che, a conti fatti, questa proposta più che unire ha diviso. Queste, in soldoni, le nostre posizioni discusse a scuola o, nelle ore buca, nel bar di Bachisio. E, proprio mentre sorseggiavamo un caffè, abbiamo capito che la soluzione era a pochi passi da noi, in quell’edificio con l’intonaco scrostato dall’incuria e dall’indifferenza, chiamato Scuola. Insomma era in quel luogo che le parole, sempre belle e affascinanti, dovevano lasciare spazio ai fatti. Il giorno dopo ho fatto l’appello e Antonio è diventato Antoni, Giovanni si è trasformato in Juanne e Luca è rimasto Luca nella piacevole disapprovazione generale che i ragazzi hanno manifestato con urla di giubilo e con simpatiche pacche sulle spalle del malcapitato Luca. La classe in questione, sia detto di passata, è composta da ventitre ragazzi di cui solo due hanno succhiato la lingua con il latte materno. Dopo una breve introduzione accompagnata dallo sguardo intimorito dei discenti ho cominciato a esporre il lavoro che ci apprestavamo a fare: incisione sull’argilla con un chiodo che, in quell’occasione, si è trasformato in un affascinante “crau”. Dopo un po’ ha preso la parola il collega Asproni che ha spiegato la necessità di tenere il polso in una certa posizione. Alla parola “brussu” Eleonora ha esclamato: “non lo sapevo che si diceva così!” Io l’ho osservata con sguardo di finto rimprovero e lei, arrossendo, l’ha ripetuta: “non l’ischio chi si naria’ gai!” A sentir parlare in sardo una compagna che nella sua vita ha sempre parlato in italiano i ragazzi hanno applaudito vigorosamente, sciogliendo ogni timidezza e titubanza. In questa meravigliosa atmosfera abbiamo riascoltato termini che molti avevano smarrito: il dimenticato “barbarile” al posto di “imbuto”, il magico “mascamente” in sostituzione dell’anonimo “soprattutto”, il ruvido “rucrare” al posto del molliccio “attraversare”. I ragazzi, a fine lezione, erano davvero felici e compiaciuti di questo tuffo dentro una lingua che noi troppo spesso, chi in un modo chi in un altro, oltraggiamo. Ma quel giorno no! Quel giorno, questa magica lingua l’abbiamo, semplicemente, usata. L’incantesimo è stato infranto dal suono di un’agghiacciante campanella che ci ricordava ch’era finita l’ora. I ragazzi si sono messi in fila e ci hanno salutati con un collettivo “adiosu”. Io e Diego, quasi all’unisono, abbiamo risposto con un “imbonora” leggermente graffiato dall’emozione. Forse perché nel nostro piccolo abbiamo dimostrato a noi stessi, che lo sapevamo, e ai nostri alunni, che non lo sapevano, che con questa nostra bella lingua tonda si può insegnare qualsiasi materia, anche l’Arte.
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