Quando anche Isaac Newton perse se stesso

Creato il 11 agosto 2010 da Paciampi
Mi sembra di essere stato solo un ragazzo che gioca sulla riva del mare, divertendosi a trovare ogni tanto un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella delle altre, mentre il grande oceano della verità si stendeva tutto da scoprire davanti a me
Che bella questa citazione di Isaac Newton, che ho trovato all'inizio di La lettera di Newton di John Banville (Guanda editore).  Parole inattese dall'uomo che ha gettato le più solide fondamenta della scienza moderna, una scienza fatta di rigore, forze meccaniche, corrispondenza di cause ed effetti, numeri. Gravitazione universale, calcolo differenziale, leggi dell'ottica, tanto per dire.
Eppure anche lui chi è se non un ragazzo che gioca in riva al mare, che raccoglie ciottoli o conchiglie di verità? Altro che mela che cade (ma è proprio vero?) ed è come se l'universo intero si fosse messo d'accordo per comunicargli una delle più entusiasmanti verità.
 Isaac Newton, si sa, non è stato solo lo scienziato lucido, metodico, convinto dei suoi mezzi. A un certo punto arrivò anche a un esaurimento nervoso molto vicino alla follia. Ai suoi amici, in particolare a John Locke, scrisse lettere deliranti, dense di terribili accuse (si dice che a questo stato non fosse estraneo il mercurio che impiegava per i suoi esperimenti).
Ed è da qui che parte il libro di Banville. O meglio, da un gioco di corrispondenze e rimandi tra Isaac Newton, il grande scienzato che a un certo punto perde il senso del suo lavoro e delle sue scoperte, e l'io narrante che dopo sette anni di fatiche finisce in un vicolo cieco con la sua biografia sullo stesso Newton.
Poi il i libro non mantiene fede a tutte le aspettative: gira un po' a vuoto, la "storia" rimane lì - non che ci debba essere per forza - insomma, non si sa bene cosa volere da questo libro.
E non so se ho trovato più piacere per una scrittura svelta ma capace di affondare nei personaggi o nelle situazioni o più irritazione per un piccolo capolavoro mancato.
Però quanto fa pensare il vicolo cieco del grande scienziato, così come la resa dello scrittore che perde il bandolo della matassa, dopo averla sbrogliata per un'infinità di tempo. Magari solo perché un giorno il cielo era più azzurro del solito.
Quasi a provare l'innocenza delle cose, appunto, la loro non complicità con i nostri affari

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