Quando Carlo Ancelotti calcava i campi da gioco… (by Bruce Wayne)

Creato il 17 gennaio 2013 da Simo785

Forse era troppo pessimista, Giorgio Tosatti, quando diceva che il calcio italiano sembrava non essere più in grado di tirar fuori personaggi come Carlo Ancelotti. Il trascorrere degli anni, infatti, ci ha mostrato che la sua grinta di capitano-gregario, disposto a fare “una vita da mediano” in cui la tempra ha più peso dell’estro e della fantasia, è stata rintracciabile nuovamente nel “ragazzo di Calabria” Gennaro Gattuso, che come lui è stato capitano del Milan e come lui ne ha incarnato l’anima mossa dall’abnegazione e dal senso del dovere. Però non posso nascondere che, pur nel suo eccessivo pessimismo, Tosatti – al quale sarà, prima o poi, il caso di dedicare un articolo, perché nel suo caso viene da dire che, sì, difficilmente avremo altri giornalisti come lui – ha dato una definizione di Ancelotti di fronte alla quale proprio non riesco ad essere in disaccordo. Perché quando scriveva che il futuro allenatore di Milan e Juventus poteva essere considerato “l’ultimo vero prodotto di ceppo contadino espresso dal calcio italiano”, davvero, coglieva nel segno come solo lui sapeva fare.

I “faticatori” venuti dopo Ancelotti, infatti, rimandano ad altre esperienze di vita e ad altre realtà. Nel già menzionato Gattuso, ad esempio, c’è il nuovo Mezzogiorno, in cui la miseria e l’arretratezza socio-culturale fanno il paio con l’avvento di internet, dell’hi-tech, delle discoteche e di una tutta nostrana e casereccia “febbre del sabato sera”. Oppure, in un campione come Totti (certo infinitamente più talentuoso di Gattuso ed Ancelotti ma non meno disponibile di loro a piegare le sue potenzialità alle esigenze della squadra – lo sta dimostrando pienamente quest’anno con la dedizione alle volontà di Zeman), l’origine romana porta con sé i segni non tanto delle borgate a cui poteva essere abituato Pier Paolo Pasolini, ma di quelle “imborghesite” nate all’indomani del boom economico, in cui la parlata romanesca si associa agli scooter ed alle sale giochi. Del resto non potrebbe nemmeno essere diversamente. Questi calciatori, infatti, sono nati e cresciuti a ridosso della grande trasformazione italiana, e cioè del passaggio dallo stadio pre-industriale – che ha preceduto la loro nascita – a quello neocapitalistico degli anni Ottanta-Novanta. Non potevano non portarne addosso i segni.

Carlo Ancelotti, invece, è stato, sul campo, un prodotto tipico delle campagne della provincia di Reggio Emilia. Pronto a rialzarsi dopo le cadute – fu operato quattro volte al ginocchio, e più di una volta la sua carriera fu data per spacciata –, disposto a mettere la sua tenacia a disposizione del talento altrui – tutti ricordiamo il Milan di Van Basten, Gullit e Rijkaard, qualcuno ricorda il Milan di Baresi, ma nessuno ricorda il Milan di Ancelotti –, semplice e diretto fino all’ingenuità nel rapporto coi giornalisti e per nulla avvezzo a discutere le direttive di un allenatore come Arrigo Sacchi, i cui eccessi caratteriali sono spesso sfociati in profonde inimicizie coi giocatori allenati. In questo, sì, Tosatti aveva ragione: molto probabilmente Ancelotti è stato l’ultimo campione dell’Italia contadina.


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