Con la sua naturale attenzione di sempre, mi chiede come stanno i bambini. Rispondo volentieri e poi domando di lei.
I suoi occhi però si abbassano e si fanno lucidi, la voce inciampa nella gola: «Non ci vado più da quel medico. Mi ha detto cose troppo brutte. Mi ha parlato di una possibile malattia degenerativa senza nemmeno una diagnosi certa; di sintomi invalidanti senza il conforto di una cura definitiva.»
Anche i miei occhi si abbassano abbattuti da quelle poche parole. Fissano a terra il suo futuro e i suoi progetti che sembrano contrarsi, schiacciati da un’opprimente e buia angoscia, fino ad implodere in un miope presente a cui è stata tolta la possibilità di guardare lontano.
È questa la nostra unica vita, non ci è concesso il bis. Ce la giochiamo tutta qui, sperando in un po’ di fortuna. E, invece, una salute definitivamente compromessa può far crollare ogni nostra precaria speranza, ogni lusinga di realizzante felicità.
Così, si guardano gli altri andare avanti nel cammino ordinario della loro vita, mentre si è avvolti da quel disperato dramma che ferma il tempo e falcia i sogni.
È possibile sorridere ancora pensando al futuro? È possibile trovare serenità in certe difficili condizioni di vita?
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