“Quando sulle carrette del mare c’ eravamo noi”
di GIAN ANTONIO STELLA. Da Il Corriere della Sera, 26 Ottobre 2003
Furono tanti i naufragi di navi italiane, spesso fatte partire da armatori senza scrupoli. Come il “Principessa Mafalda“, che nel 1927 era ancora la nave ammiraglia della nostra Marina commerciale ma dopo avere scaricato in America del Sud migliaia e migliaia di poveretti in un via-vai incessante sulla rotta per Buenos Aires era ormai acciaccata. Le macchine non marciavano a dovere, quell’ 11 ottobre in cui, in ritardo proprio per il tentativo dei meccanici di sistemare i problemi, la nave partì da Genova. E dopo tre giorni si inoltrò nell’ Atlantico nonostante i motori nel Mediterraneo si fossero fermati otto volte. A Dakar, nuova sosta e nuove riparazioni, decisero di andare avanti lo stesso. Con la nave così piegata di lato «che i bicchieri si rovesciavano sui tavoli». Dio protesse quei poveretti fino alle coste brasiliane. Poi li abbandonò. Era il 25 ottobre. L’ asse porta-elica di sinistra si sfilò, la nave cominciò a imbarcare acqua, si scatenò il panico. Il capitano cercò per ore di mettere ordine nell’ evacuazione, revolver alla mano. Ma i passeggeri terrorizzati erano troppi, le scialuppe troppo poche. E tra le acque arrivarono subito sciami di squali bianchi. Morirono in 385. Ma il numero finì tre giorni dopo in un titolino in neretto corpo 7. A una colonna. I giornali di allora preferivano dare spazio alla retorica del comandante eroe che aveva voluto affondare con la nave. Che gli importava, di quei poveracci che fuggivano da un’ Italia che non aveva pane per loro? Più spaventosa ancora, vent’ anni prima, era stata la tragedia del “Sirio“, un vapore partito da Genova verso il Sudamerica. A bordo, dice la struggente canzone composta sulla catastrofe, «cantar si sentivano / tutti alegri del suo destin». Era il 4 agosto del 1906, il tempo era buono, il mare piatto, quando la nave si schiantò su uno scoglio a tre metri di profondità. I danni erano gravissimi ma l’ affondamento totale sarebbe avvenuto solo 16 giorni dopo. Avrebbero potuto salvarsi tutti. Ma l’ evacuazione fu così caotica e disperata che alla fine il bilancio, stilato dai Lloyd’ s, fu apocalittico: 292 morti. In realtà, pare che le vittime siano state ancora di più: tra le 440 e le 500. Per il “Sirio” e la “Principessa Mafalda” sì, ci fu una qualche attenzione: erano troppo grandi, quelle tragedie, per ignorarle. Ma tutta la nostra storia di emigranti è piena di naufragi che, come quelli che viviamo ai nostri giorni nel canale di Sicilia e che di rado finiscono sui giornali dei Paesi arabi o africani, sono stati rimossi. Come quello della “Ortigia“, cozzata il 24 novembre 1880 davanti alle coste argentine de la Plata con il mercantile “Long Joseph” e affondata con 249 poveretti. O del “Sudamerica“, che si inabissò nelle stesse acque nel gennaio 1888 con un carico di 80 anime. Lutti collettivi elaborati da migliaia di famiglie in silenzio. Senza che lo Stato, la politica, i giornali, la scuola, si facessero mai carico di piangere insieme tutta quella umanità inghiottita dalle acque.
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