Ecco quindi che si è giunti al paradosso che, pur in presenza di dati economici più deboli rispetto alle previsioni degli analisti, i mercati ottengano performance positive perché, secondo questa logica, la debolezza dei dati allontanerebbe la stretta monetaria da parte della FED, salvo che non si giunga a una nuova ondata di stimoli monetari.
Senza la pretesa di essere esaustivi, vale la pena ricordare qualche dato uscito negli ultimi tempi che, essendosi rivelato più debole delle attese, ha contribuito ad irrobustire l'idea che le banche centrali potrebbero implementare altre manovre di stimolo monetario o (come nel caso della FED) allontanare la stretta sui tassi.
All'inizio della scorsa settimana Eurostat ha comunicato il tasso di'inflazione in Eurozona nel mese di settembre, risultato in calo a -0.1% rispetto a +0.1% di agosto. La diminuzione -che è la prima che si registra da quando è stato lanciato il quantitative easing da parte della BCE- è principalmente imputabile al crollo del prezzo delle materie prime e del petrolio. L'inflazione core (cioè depurata dalla componente energia) si è attestata allo 0.9%, ossia meno della metà del target di medio periodo fissato dalla BCE. Il deteriorarsi delle aspettative sull'inflazione, come dicevamo, ha irrobustito l'idea che la BCE potrebbe ampliare o estendere l'acquisto di titoli. Stessa cosa accade in Giappone, dove l'indice “core” dei prezzi al consumo è calato dello 0,1% in agosto, cosa che non succedeva dall'aprile 2013. Il dato finisce per moltiplicare le pressioni sulla banca centrale perché allenti ulteriormente la politica monetaria con ulteriori acquisti di asset, forse il prossimo 30 ottobre in occasione del rilascio dell'outlook aggiornato sull'economia.
La bassa inflazione è un fenomeno mondiale. Pressoché tutte le economie avanzate si trovano con un'inflazione prossima allo zero (come il RegnoUnito) o addirittura negativa (come nel caso del Giappone). Negli Usa l'inflazione è intorno all'1.3% e comunque lontana dal target del 2%; in Cina è al 2%, mentre, secondo l'ultima rilevazione, i prezzi alla produzione sono scesi del 5.9% su base annua.
In questi pixel abbiamo reiteratamente affermato che se da una parte l'inflazione più bassa restituisce maggior potere di acquisto ai consumatori, dall'altra mal concilia con gli elevati livelli di indebitamento che non posso essere smaltiti per via inflattiva, in quanto i bassi livelli di inflazione incidono (negativamente) nelle metriche del debito in rapporto al PIL. Quanto affermato è tanto più vero nei paesi con elevati livelli di indebitamento e con livelli di crescita stagnanti, nei quali, in via di principio, si assiste ad aumenti di PIL più contenuti rispetto al costo sostenuto per il debito. Ciò comporta che il rapporto debito/Pil cresca anziché diminuire.
Sempre la scorsa settimana, negli Usa, i dati sull'occupazione del mese di settembre sono risultati nettamente inferiore alle stime degli analisti (142 mila posti creati contro gli oltre 200 mila attesi) e, come se non bastasse, sono stati rivisti al ribasso anche i dati sull'occupazione di luglio e agosto. Ovviamente, di inflazione salariale nemmeno a parlarne. Nel mese di agosto, anche per via della forza del dollaro e della minore domanda estera, le esportazioni sono diminuite del 2% a 185,1 miliardi di dollari, il minimo da ottobre 2012. Quindi la forza del dollaro si riflette anche sugli utili societari, che tendono a diminuire. Pochi giorni fa, anche per via della crisi che sta colpendo il settore minerario, Caterpillar ha rivisto al ribasso la stima degli utili e ha annunciato che potrebbe tagliare tra i 5000 e i 10000 posti di lavoro.
A livello globale, seppur con le dovute distinzioni di area in area, anche l'attività manifatturiera sta perdendo slancio, anche per via di un minore domanda provenienti dalle economie in via di sviluppo. Il rallentamento della Cina e le spinte recessive provenienti dalle economie emergenti (e non solo), come è ovvio, iniziano ad impattare anche nelle aree più sviluppate. Ne costituisce esempio lampante i recenti dati sugli ordinativi all'industria e sulla produzione industriale tedesca del mese di agosto, questi ultimi in calo dell'1.2% rispetto al mese precedente; mentre, proprio oggi, sempre dalla Germania, sono stati diffusi i dati sulla bilancia commerciale e sulle esportazioni, risultate anch'esse in diminuzione del 5.2%: il calo più corposo dal 2009. I dati appena espressi non tengono conti degli effetti che sta producendo lo scandalo Volkswagen, che verranno tradotti in numeri nei prossimi mesi e trimestri, incidendo sugli investimenti, sull'attività industriale e sulle esportazioni.
Non è un caso che i principali istituti tedeschi di ricerca economia abbiano tagliato all’1,8% le stime di crescita della Germania per il 2015. Ieri sera Deutsche Bank ha annunciato che chiuderà il terzo trimestre 2015 con una perdita da 6.2 miliardi di euro.
Non ultimo, proprio qualche giorno fa, il Fondo Monetario Internazionale ha tagliato le previsioni di crescita globale, sia per il 2015 che per il 2016 (qui potete trovare le previsioni aggiornate), sopratutto per via dei venti di crisi che soffiano nelle economie emergenti stante anche l'elevato indebitamento in valuta estera e le pressioni esercitate dal crollo dei prezzi delle materie prime. (qui, qui e qui potete leggere a proposito dei Paesi Emergenti)
Per concludere, nonostante il quadro economico globale sia manifestamente più debole di qualche mese fa, i mercati sembrano scommettere su ulteriori manovre espansive da parte delle banche centrali (in primi Boj e Bce) e, per quanto riguarda la Fed, ad un differimento (o sospensione) dell'inizio del processo di normalizzazione della politica monetaria.
Come riporta Il Sole 24 Ore, quanto affermato sembra trovare conferma anche in uno studio delNational Bureau of Economic Research statunitense:
L’ultima stranezza di Borsa risale a venerdì scorso. I mercati aspettano con i nervi a fiori di pelle i dati sull’occupazione statunitense, i mitici non farm payrolls. La tensione si taglia a fette per i soliti motivi: la frenata cinese, il dollaro forte che impatta sugli utili aziendali, il crollo delle materie prime, la fuga dagli emergenti, l’Europa che cresce meno del previsto, il Giappone che non cresce proprio eccetera. E poi il tormentone infinito del rialzo dei tassi Fed. Esce il dato ed è orribile: ben sotto le attese (appena 142mila nuovi posti contro 201mila stimati) e debole in ogni componente. Correttamente le Borse stornano, ma dura poco: Wall Street conclude la seduta sui massimi di giornata e continua la corsa - assieme all’Europa - nella seduta seguente, con un rimbalzone complessivo di circa il 5%.Ma come: esce un dato orribile e le Borse festeggian0? Certo, spiegano gli esperti, perché per i mercati le cattive notizie sono splendide: brutti dati sull’occupazione Usa allontanano la stretta della Fed sui tassi, che a sua volta allontana la conseguente crisi (con fuga di capitali) dai Paesi emergenti, il che a sua volta sopisce l’ansia della recessione globale e così via. Da quando le banche centrali le hanno abituate a mari di liquidità e tassi a zero, per le Borse «bad news are good news», sospirano gli esperti: il tanto peggio diventa tanto meglio.In realtà questo meccanismo perverso non esiste solo nell'era post Lehman (dal 2008), con l’iperattivismo dei banchieri centrali e il denaro facile. Uno studio pubblicato nel 2001 dal National Bureau of Economic Research statunitense prova che il «bad news good news» è molto più vecchio degli attuali eccessi monetari. La pubblicazione scientifica è stata scritta dai docenti universitari John Boyd e Ravi Jagannathan - assieme a Jian Hu, managing director di Moody’s Investor Services - e per chi volesse approfondire si intitola The Stock Market's Reaction to Unemployment News: why Bad News are Usually Good For Stocks.Cosa dicono i tre studiosi? Mettendo assieme le statistiche dal lontano 1961 sull’uscita dei dati sull’occupazione Usa e sulla conseguente reazione dell’indice S&P 500, i tre hanno scoperto che nelle fasi di espansione economica i mercati reagiscono alle sorprese in modo completamente opposto rispetto a quando c’è una recessione. Più in dettaglio: nelle fasi “toro” (come questa che stiamo vivendo dal 2009), le sorprese negative producono un rimbalzo sui mercati, mentre quelle positive tendono a deprimerli. Il contrario avviene durante le recessioni: sorprese positive sull’occupazione fanno crescere le Borse, come da logica, mentre dati brutti sul lavoro portano a una discesa degli indici. E' da notare che venerdì scorso, dopo i brutti non farm payrolls sul lavoro, gli indici hanno inizialmente ritracciato per qualche ora, ma poi ha prevalso la filosofia del “tanto peggio tanto meglio” ed è partito il robusto rally.Ci si può guadagnare? Fermo restando che i mercati sono imprevedibili, il modello individuato da Boyd, Jagannathan e Hu ha dalla sua la solidità della statistica: se si è in una fase di espansione, come accade per la maggior parte del tempo, storicamente un brutto dato porta a una crescita delle Borse e viceversa. La morale col sorriso la lasciamo a Mark Hulbert. Okay , dice l’editorialista di MarketWatch, deprimiamoci per i brutti dati sul lavoro, ma consoliamoci per il rimbalzo delle Borse: finché i mercati ragionano con «bad news are good news», la vera recessione è ancora lontana.