“Oggi i fotografi sono sfortunati. Bravi ma sfortunati. Tutto quello che è vita e cronaca glielo ha portato via la televisione. Il reportage lo fa la televisione e a loro non resta che dedicarsi alla moda, all’architettura, allo still-life.”
A parlare è Pepi Merisio. Nato nel 1931 e fotoamatore dal 1947 come lo furono Fulvio Roiter, Gianni Berengo Gardin, Mario Giacomelli, quando il termine dilettante non era considerato un insulto.
Nel ‘62 passò al professionismo e l’anno dopo iniziò una lunga collaborazione con Epoca. Una selezione delle sue foto “Ieri in Lombardia“ è esposta fino al 13 novembre al grattacielo Pirelli di Milano.
Le immagini in mostra sono 150, molte delle quali inedite. Scattate negli anni ‘60 e ‘70 raccontano la provincia italiana di allora.
Un mondo fatto di rituali secolari, di contadini, di bambini sorridenti, di uomini e donne che dialogavano con il fotografo - Merisio non ha mai “rubato” un’immagine - senza l’angoscia di considerare invasa la propria privacy. Dice Merisio:
“Allora fotografare era più facile. I pescatori erano vestiti da pescatori, gli operai da operai e i preti da preti. Oggi siamo tutti omologati e meno riconoscibili. C’è bisogno delle didascalie per dare l’identità alle persone.”
Lei è stato il primo a fotografare la giornata di un papa, Paolo VI, ha girato il mondo come inviato di un settimanale di prestigio come Epoca. Perché tanto interesse per le piccole cose, per le abitudini quotidiane?
“Quando, dopo un viaggio, tornavo a casa, fotografavo la Lombardia perché mi accorgevo che stava scomparendo tutto rapidamente. E non solo la Lombardia. Potrei fare mostre “Ieri in Liguria”, “Ieri nel Lazio”…”
La fotografia è solo un mezzo per ricordare o può anche servire per cambiare il mondo?
“Non so. Io credo che più che per cambiare, la fotografia serva per insegnare qualcosa. Paolo Monti diceva che fotografare la guerra è facilissimo. Difficile é fotografare la pace.”
marcello.mencarini