Quando il denaro impreziosiva l’arte

Creato il 01 dicembre 2011 da Sirinon @etpbooks

Il denaro ha da sempre svolto un suo ben preciso ruolo, oltre che nella storia dell’uomo, anche nell’arte, anzi per l’esattezza un duplice ruolo. E’ stato elemento più e più volte raffigurato ed è stato insieme strumento non solo di pagamento ma anche pendolo di fortuna o di sfortuna per il valore che contestualmente poteva venir attribuito ad una opera d’arte, facendo così propendere verso la ricchezza o la miseria, verso la fama o l’anonimato, la sorte dell’autore, del gallerista, del critico che aveva, con le sue parole, caldeggiato o bocciato. Al punto che l’arte è divenuta non solo un godimento dello spirito e dell’intelletto ma oggetto finanziario di risparmio e di speculazione. E a questo punto anche i proprietari delle opere stesse sono entrati a far parte del circolo delle fortune e delle sfortune, trovando ora conforto, ora disperazione negli investimenti effettuati. Denaro ed arte dunque sempre più sono divenuti due mondi legati tanto che la fama dell’artista, ahimé sempre più spesso, non si evince dalla qualità dell’opera invero sempre più oggetto di una interpretazione spesso rilevata e rilevabile da addetti ai lavori e non dal vasto pubblico, quanto dall’esito di quel processo che, attraverso il placet della critica e l’impegno del gallerista, riesce o meno ad ottenere un piazzamento sul mercato tale da divenire non opera d’arte nel senso scolastico del termine, quanto oggetto cult, status symbol, il cui valore sta spesso più nella blasonata celebrazione critica che non in una oggettività faticosamente palpabile. Non è certo regola questa ma, entro certi termini una sorta di percorso quasi obbligato da seguire per gli addetti - i quali malvolentieri se ne sottraggono, anche per una sorta di corporativismo - ed un riferimento sempre maggiore per i collezionisti, oramai molto spesso, forse troppo, parafrasati in investitori ed influenzati più dal possibile e futuribile valore finanziario del loro sforzo che non dalle peculiarità artistiche intrinseche all’oggetto dell’investimento stesso. Certo l’opera d’arte sempre con minore frequenza è frutto di committenza e di quel mecenatismo che ne vide gli splendori rinascimentali, allorquando il pittore veniva pagato per la prestazione o addirittura annualmente dalle varie Signorie. Pertanto quasi per necessità é dunque nato un meccanismo che possa assolvere al ruolo di intermediario tra domanda e offerta in mancanza della quasi scomparsa categoria dei committenti.

Ma il denaro, oltre ad essere merce di pagamento, trovò poi anche di che figurare, specie in pittura, nelle rappresentazioni di carattere biblico, come ad esempio nella parabola dei “trenta talenti”, o nelle rappresentazioni della vita sociale rinascimentale laddove l’attività bancaria e di cambio era simbolo della ricchezza non solo del singolo ma anche dell’epoca, di un territorio, di una società, che in buona parte vi si trovava rappresentata per il fiorire dei commerci. Le monete stesse, che all’epoca e precedentemente anche, erano “il denaro”, nella loro storia, hanno inoltre un diretto legame con il mondo dell’arte per la raffinatezza sempre maggiore della loro fattura, per la finezza del conio, fino a divenire simbolo stesso della ricchezza in senso assoluto. Ciò perdurò fino a tutto il settecento quando la squisitezza della fattura unitamente all’effige del regnante in una moneta, non potevano che raccontare come veicolo di un’arte circolante, della ricchezza e della stabilità di questo o quello Stato o Principato. Così fu anche per la pittura anche se invero già alla fine del seicento ci fornì le ultime raffigurazioni del denaro prima che le stesse non divenissero satiriche, simboliche e non più testimoni della realtà  Ma si deve probabilmente proprio al periodo rinascimentale il periodo in cui maggiormente il connubio arte e denaro si palesa parallelamente crescente sia per l’aspetto economico legato all’esecuzione di un’opera, sia come oggetto ammesso e tollerato dall’arte stessa in quanto non simbolo oscuro di profitto o speculazione, quanto di ricchezza condivisa. Ecco dunque che specie nella pittura fiorentina, italiana e fiamminga, unitamente ai ritratti o alle scene cittadine spesso si intravedevano cofanetti o piccoli borselli, o ancora astucci o filzette di denari, rigorosamente in oro o argento, che con naturalezza partecipavano al completamento di un’opera senza che la stessa ne risentisse risultando eccessiva, spocchiosa o ancora capace di insozzare l’insieme. Sarà eventualmente dalla caratterizzazione dei personaggi rappresentati, ovvero dal loro sguardo arcigno o dal corpo atteggiato come leggermente deforme, che se ne potrà eventualmente trarre una identificazione sociale, laddove gli stessi siano i da sempre famigerati esattori delle tasse piuttosto che non cambiatori di moneta o ricchi mercanti. Era il personaggio eventualmente a suscitare sdegno o ripugnanza e non il denaro che ancora non era simbolo negativo così come le diventerà sempre di più nelle sue apparizioni afferenti l’arte fino a divenire in maniera netta e definita simbolo della negatività, dell’impoverimento intellettuale, oggetto da trattarsi da parte dell’artista, unicamente come viatico al disprezzo. Ma, in quei secoli di crescita, questo appagamento sensoriale nel riconoscimento dell’opera che pur deve annoverarsi tra le emozioni che un’arte può suscitare, aveva in quelle stesse monete là dipinte la ragione della propria sopravivenza laddove, precisi e dettagliati contratti molto spesso legavano anche i più conosciuti pittori ai loro committenti. Uno fra tutti, particolarmente emblematico, é quello stipulato tra il Ghirlandaio ed il priore dello Spedale degli Innocenti per l’esecuzione dell’Adorazione dei Magi, nel 1488, che ben specifica l’oggetto dell’impegno, i modi ed i tempi sia di esecuzione che di pagamento e, soprattutto il fatto che debbano essere usati colori come l’oro ed il blu ultramarino, di ottima qualità, laddove anche la bontà dei materiali utilizzati concorrevano, unitamente alla buona fattura e alla “fama” dell’artista, a definire un prodotto di qualità.

Così recitava il contratto: “Sia noto e manifesto a qualunque persona che vedrà o legierà questa presente scritta come a preghiera del venerabile religioso messer Francesco di Giovanni Tesori, al presente priore dello spedale degli Inocenti di Firenze, e Domenico di Tomaso di Curado [Ghirlandaio] dipintore, Io frate Bernardo di Francesco da Firenze, frate ingiesuato, a frate questa scritta di mia mano per convegna e patto e allogazione díuna tavola díaltare a andare nella chiesa del sopradetto spedale degli Inocenti con patti e modi che qui di sotto si dirà, cioè: Che oggi questo di xxiii díottobre 1485 el detto messer Francesco dà e alluoga al sopradetto Domenico a dipingere uno piano, el quale è fatto e à avuto da detto messer Francesco, el quale piano à fare buono detto Domenico, cioè à pagare, e à a colorire e dipignere detto piano, tutto di sua mano in modo come apare uno disegno in carto con quelle figure e modi che in esso apare, e piú e meno secondo che a me frate Bernardo parrà che stia meglio, non uscendo del modo e composizione di detto disegno; e debbe colorire detto piano tutto a sua spese di colori buoni e oro macinato nelli adornamenti dove acadranno, con ogníaltra spesa che ín detto piano acadessi, e líazurro abbia a esse oltramarino di pregio di fiorini quatro líoncia in circa; e debba aver fatto e dato fornito el detto piano da oggi a trenta mesi prossimi a venire; e debba avere per pregio di detto piano comíè detto, e tutto a sua spese, cioè di detto Domenico, fiorini centoquindici larghi se a me frate Bernardo soprascritto parrà se ne venghino, e possi pigliare parere di detto pregio o lavoro da chi mi paressi, e quando no mi paressi se ne venissi detto pregio, níabbia avere quel meno che a me frate Bernardo parrà; e debba in detto patto dipingere la predella di detto piano come parrà a fra Bernardo detto; e detto pagamento debba avere in questo modo, cioè: chíel detto messer Francesco debba dare al sopradetto Domenico ogni messe fiorini iii larghi, cominciando a di primo di novembre 1485, seguendo di mano in mano, come è detto. ogni mese fiorini tre larghi... E non avendo detto Domenico fornito detto piano frallo infrascritto tempo, abbia a cadere in pena di fiorini xv larghi; e cosi se íl detto messer Francesco non oservassi il sopradetto pagamento, abbia a cadere nella sopradetto pena in tutta la soma, cioè che finito detto piano, gli abbia a dare intero pagamento del tutto la soma che restassi. Io messer Francesco di Giovanni sopradetto son contento a quanto di sopra si contiene, e per chiarezza di ciò mi sono soscritto di mia propia mano, anno e mese e di detto di sopra, e obrigo detto spedale etc. Io Domenico di Tomaso di Curado dipintore sono contento a quanto di sopra si contiene, e per chiarezza di ciò mi sono soscritto di mia propia mano, anno e mese e di sopradetto”.

Con il settecento finivano i grandi imperi e regni e con essi il mecenatismo che sia per le mutazioni sociali, sia per le nuove correnti artistiche che volevano adeguarsi e compenetrarsi in esse e nei “tempi moderni”, l’arte e la pittura con essa, scivolarono lentamente verso l’introspezione, verso il singolarismo, verso quell’universo sconfinato dell’emozione personale che sarà sempre più rilettura della realtà, interpretazione della stessa, indagine non più condotta con la percezione oggettiva ma tramite il sentire intimo, personale, privato, talvolta in indagabile. Insieme agli altri oggetti della realtà anche il denaro praticamente sparì dalla rappresentazione così come nella pratica sociale la moneta lascerà progressivamente il posto al denaro cartaceo che poi, anch’esso ingombrante altro non diverrà che un “bit” elettronico ed effimero, rinnegato dall’artista, spodestato dal suo ruolo di legame tra acquirente e pittore oggi filtrato dal “sistema arte” che si è impadronito del ruolo di giudice-arbitro del valore dell’opera.


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