Ecco, il problema mi sa che è proprio questo, che è per questo che il grande poeta e premio Nobel Josip Brodskij finì sotto processo nella plumbea Unione Sovietica degli anni Sessanta del secolo scorso. Per l'incapacità dei grigi burocrati del socialismo di immaginare che la poesia può essere un autentico lavoro, più che per consapevole volontà di piegare il poeta dissidente.
Tutto questo ora ce lo racconta un libro, Brodskij 1964. Un processo (Medusa edizioni). L'ultimo Tuttolibri ha pubblicato un brano della prefazione di Massimo Onofri. Un'occasione per ricordare il processo per "parassitismo sociale" al grande poeta ebreo russo.
Un'accusa che fu così articolata da un membro dell'Unione degli scrittori sovietici:
Brodskij sviluppa tre temi: primo, il distacco dal mondo; secondo, la pornografia; terzo, l'assenza di amore per la patria e per il suo popolo. La patria gli è straniera
Spiega Onofri:
E certo, Brodskij non s'aiuta difensivamente, ma aggrava la sua posizione, quando, di fronte all'accusa che quello di poeta non è un lavoro, continua a ripetere che il suo lavoro appunto, è stato quello di comporre o tradurre versi
Evidentemente poteva essere un lavoro mettere le proprie parole al servizio di quegli stessi burocrati, ma la poesia, la poesia vera, genuina, forte del suo stesso coraggio, assolutamente no, quella poesia non cortigiana doveva essere solo l'esibizione di un parassita o di un pornografo.
E così non faccio fatica a pensare ad altri tempi, altre storie.