Quando l’italia aveva dei soldati

Creato il 10 agosto 2011 da Tnepd

I MOTIVI DELLA SCELTA DEL COLONNELLO ERNESTO BOTTO (*)

Ricevuto da Filippo Giannini

A guerra conclusa e in pieno periodo epurativo, il colonnello pilota Ernesto Botto ricevette dal Ministero della Difesa un questionario, al quale così rispose:

Dopo l’8 settembre io agii come la mia coscienza mi comandava. Chi vuol sapere di più sul mio conto consulti il mio libretto personale. Non appartengo più alla famiglia delle Forze Armate, non vedo alcuna possibilità di rientrarvi e non desidero rientrarvi. Da quando mi avete liquidato sono un borghese, e consentite che vi parli confidenzialmente, per rispondere alle vostre domande e con la speranza che dopo avermi ascoltato non mi manderete altri questionari.

Il punto di partenza, indispensabile a capire tutto il resto, è una confessione che debbo decidermi a fare per quanto scandalosa possa sembrarvi; debbo cioè confessare che io, sino all’8 settembre giudicato da tutti un modello di disciplina, mi sono sempre comandato da solo, e questo per la essenziale ragione che nessuno avrebbe potuto comandarmi di fare ciò che ho fatto. Voi sapete che nella guerra di Spagna persi una gamba per ferite riportate in combattimento aereo. Non ero iscritto al partito fascista, bastandomi di essere un soldato dell’Italia, e, avendo trascorso fra motori e carlinghe tutta la mia età cosciente, non mi ero mai preoccupato di sapere se esistessero per un paese civile altri modi di governarsi diversi dal fascismo; avevo chiesto di andare in Spagna perché per me il sapore della vita è nel volo, un sapore tanto più intenso quando il volo è di guerra. Dal momento che vi era la possibilità di battagliare per aria in una guerra in cui il mio paese era interessato, non potevo mancare all’appuntamento.

Amputato al terzo superiore del femore, avrei potuto congedarmi. Mutilato e Medaglia d’Oro. La mia posizione era tetragona a qualsiasi vento di fortuna. Alla Patria avevo dato e per essa fatto abbastanza da vivere moralmente e materialmente di rendita sul mio passato sino ai più tardi anni. Avrei potuto divenire uno di quei personaggi rappresentativi che vengono invitati alle cerimonie patriottiche e ai quali l’oratore rivolge un lirico saluto riscuotendo gli scroscianti applausi del pubblico.

Volendo restare nell’Esercito, avrei potuto divenire un ufficiale calamaio vivente tra placide scartoffie, e la mia presenza avrebbe onorato qualunque Distretto. Volendo restare nell’Aeronautica, avrei potuto divenire insegnante di cattedra in una delle nostre Scuole, impartire ai futuri piloti meteorologia o aerodinamica o tattica aerea o balistica. Ma con qualche adattamento tecnico la gamba superstite poteva bastarmi per i comandi: scelsi quindi l’ufficio di istruttore alla Scuola di Alta Acrobazia facendo per primo l’acrobata. C’era una manovra, ideata da me, che il mio Colonnello battezzò “Maria prega, Gesù provvede”, e nei raduni aerei internazionali quando decollavo con la mia pattuglia e cominciavamo ala contro ala i nostri caroselli, la moltitudine assiepata col naso in su restava senza fiato. Non era ambizioso virtuosismo, era addestramento alla battaglia aerea, nella quale bisognava giocare con le tre dimensioni come pescicani in lotta nella profondità del mare. Vi assicuro che in quel tempo all’estero, a vedere come ci guardavano ovunque si andava, c’era soddisfazione a essere Italiani. Nessuno poteva comandarmi di fare questo; me lo comandai da solo. Aggiungo che comandandomi da solo sentivo di obbedire alla Patria, la quale parla direttamente al cuore dei figli suoi che la natura ha fatto più forti e chiede loro di darsi completamente, ognuno nell’arte propria e nel modo che fa a lei più onore.

Nel giugno del ’40 mi trovavo in Sicilia e compii con la mia pattuglia la prima azione aerea su Malta; scendemmo a volo radente sul campo e col fuoco delle mitragliatrici liquidammo un buon numero di apparecchi. Poi fui mandato in Africa e cominciai a giostrare contro gli Hurricane. Qualche volta ne abbattei, qualche volta fui abbattuto. Ma la mia specialità è questa, che quando nel cielo del nemico sono colpito nell’apparecchio o nella persona, o nell’uno e nell’altra insieme, trovo modo, non so neppure io come, coi comandi impazziti e il cervello pieno d’ombra e di lampi, di raggiungere le nostre linee e di atterrare dalla parte giusta. Naturalmente l’atterraggio finisce di ridurre in pezzi l’apparecchio, sicché i soldati corrono a tirarmi fuori per morto dai rottami. Invece sono vivo: con qualche altro osso rotto, perdendo sangue da qualche foratura, ma vivo. E quando l’ospedale mi ha rappezzato alla meglio, non prendo la licenza di convalescenza, ma ritorno al mio campo e alla prima occasione monto coi colleghi di squadriglia su un Macchi, mi allaccio il paracadute e parto a tutta manetta con la speranza di far la festa a qualche Liberator o a qualche Spitfire.

Nessuno avrebbe potuto comandarmi di fare questo; me lo comandai da solo.

E anche prima della guerra di Spagna e prima della mutilazione era stato così. Ci sono tanti modi di fare l’ufficiale d’Aeronautica e io di mia volontà avevo sempre scelto il modo più… sportivo.

L’8 settembre mi trovavo a Gorizia dove comandavo quel campo; e a un tratto seppi che la guerra era finita. Gli italiani erano allo stremo delle forze e si arrendevano senza condizioni al nemico. Da quell’istante mi considerai congedato. Il governo, finita la guerra, non aveva più bisogno di me e io potevo disporre di me stesso. Se il Paraguay fosse stato in conflitto con l’Uruguay e io mi fossi offerto, restando italiano,  di far la guerra aerea per il Paraguay, nessuno avrebbe potuto impedirmelo. Ma non era necessario attraversare l’Oceano: c’era a portata di mano la Germania – fino a ieri alleata dell’Italia la quale si era con essa impegnata a non fare pace separata – che continuava la guerra contro gli angloamericani sino a ieri nemici dell’Italia; e immediatamente dissi agli ufficiali tedeschi della zona che, restando italiano, io continuavo la guerra con loro. Vi prevengo che avevo e conservo un alto concetto dei combattenti tedeschi, tra i quali avvicinai le più nobili figure di ufficiali che nella mia vita abbia incontrato, e incontrai ufficiali di tutte le nazioni e di tutti i continenti. Eccellenti valutatori d’uomini, ho constatato per lunga esperienza che essi hanno cordiale cameratismo e profonda stima per i buoni combattenti italiani. Oltre questi motivi personali, il patto d’alleanza con la Germania non mi era sembrato assurdo come oggi molti dichiarano, e rimango convinto che riguardo ad essa, anche per il futuro noi abbiamo più valide ragioni di intesa che di contrasto. La cosiddetta inimicizia ereditaria verso il secolare nemico (che non ci fu nemico se non quando lo attaccammo e ci fu più volte amico) eccetera, mi sembra un’idea da ragazzini sventati o da vecchi cocciuti.


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