Quando si trattano le relazioni indo-cinesi è utile rifarsi al costante modello adottato dai due paesi da quando riconquistarono la libertà dopo la Seconda Guerra Mondiale. La Cina ha utilizzato la sua via verso la libertà. L’India, ricorsa al pacifismo Gandhiano, ottenne la libertà in maniera pacifica non resistendo all’inferno della divisione.
Eccetto che per l’Azad Hind Fauj (Esercito Nazionale Indiano) di Subash Chandra Bose, l’India non combatté per la libertà così come fece la Cina. Il prezzo da pagare per la via pacifica alla libertà fu la violenta divisione del paese. Dopo aver unito la Cina con spargimento di sangue, i leader cinesi compresero, meglio di altri, che il potere in ultima analisi sarebbe derivato dalla canna di un fucile, non illudendosi mai su questo. Avendo compreso il valore del potere, iniziarono ad invadere il Tibet prima che l’India fosse in grado di rafforzarsi dopo il trauma della partizione. I leader indiani, dal canto loro, non hanno mai appreso dalla storia – invece di scrivere libri eccezionali a tal proposito – e non furono in grado di cogliere la realtà globale di quel periodo. Provarono a ricostruire l’India sulla base dell’idealismo; un idealismo ben più attinente ai giorni dell’Imperatore Ashoka, e forse alle decadi successive, che non alla realtà del XX secolo. Da allora aprirono la strada ai cinesi – e al resto del mondo. Un’umiliante sconfitta militare non insegnò mai loro davvero una lezione. L’India pagò il prezzo per la sua mancanza di realismo e continuerà a pagarlo – con più serie conseguenze nel prossimo secolo.
È passato poco tempo dall’incursione cinese del marzo – aprile 2013 a Depsang nel Ladakh; ora quasi dimenticato dai più. Quando avvenne l’incursione si aprì una lunga discussione a livello mediatico, da parte della comunità strategica e addirittura governativa, per comprendere se l’incursione fosse un’iniziativa di un comandante locale o se beneficiasse dell’autorizzazione dei più alti livelli decisionali di Pechino.
La nebbia se ne sarebbe dovuta andare ben prima di quando effettivamente successe. Comandanti locali, anche con stellette, non possono prendere l’iniziativa di penetrare fino a 19 km e poi fermarsi, permettendo in tal modo alla cosiddetta “azione limitata” di degenerare in un confronto di ben più larga scala. Anche esperte figure istituzionali non valutarono correttamente l’evento in tempo reale. È una lezione che deve essere appresa per il futuro.
Una volta che si diffuse, a livello di establishment indiano, l’idea che l’incursione non sarebbe mai potuta accadere senza il nullaosta di Pechino, il meccanismo decisionale esistente, o che avrebbe dovuto esistere, a livello nazionale non diede l’impressione di funzionare efficacemente. Fossero stati sicuri di sé, avrebbero realizzato per tempo che i cinesi avevano chiaramente esagerato. Infatti, avrebbero dovuto supporre che, l’altro lato, avrebbe involontariamente teso un tranello a sé stesso, così condizionato dagli schemi di reazione indiana dei decenni precedenti. Pertanto, che tipo di risposta avrebbe dovuto dare l’India, se fosse stata portata avanti una provocazione estrema?
Anzitutto il governo avrebbe dovuto comunicare l’impressione agli interessati, inclusi i media indipendenti, eccessivamente eccitati, che teneva completamente la situazione sotto controllo, che non era né agonizzante né in difficoltà. Anche se è diventata ormai un’abitudine bloccare l’iniziativa dei comandanti del più alto livello operativo sul campo, l’establishment avrebbe potuto lasciarli liberi di prendere posizione sul fianco dell’incursore e, se trattenuti dal seguire le truppe cinesi che erano ormai avanzate, avrebbero potuto organizzare un’incursione sul lato cinese basandosi sulla loro conoscenza del terreno, attraverso la LAC (Line of Actual Control – Linea di Controllo Effettivo) fino a qualsiasi profondità fosse necessario raggiungere con prudenza. Non fu però aperto il fuoco da parte indiana. Dipendeva dai cinesi decidere: ritirarsi, perseverare o procedere verso un’ulteriore escalation.
Il dilemma per la leadership di Pechino si sarebbe davvero posto. Qualunque fosse stato il risultato dell’escalation, molto probabilmente a favore dei cinesi, meglio preparati e con il vantaggio di essere gli aggressori, il danno per il prestigio del paese a livello regionale e internazionale sarebbe stato sproporzionato rispetto al vantaggio tattico che avrebbero potuto ottenere. Chiaramente, cercando di dare all’India una lezione o tentando di compiere un’intimidazione nei suoi confronti, in ogni caso i cinesi hanno commesso un errore grossolano. L’India dovette semplicemente aspettare con calma, dichiarando che la visita del primo ministro cinese era stata annullata. Molto probabilmente, il Ministro degli Esteri avrebbe visitato l’India al suo posto. L’India non dovette nemmeno giocare i propri assi strategici, simbolicamente, né la “carta Tibet” né quella relativa al “commercio indo-cinese”.
Fu presto realizzato che il piano cinese sarebbe fallito. Sparì il riserbo dell’India nel rafforzare i rapporti con i suoi alleati naturali in Asia Orientale e tutto ciò fu reso evidente dall’accordo multisettoriale con il Giappone, il quale era rimasto in secondo piano per anni. Ci sono alcune lezioni che dovrebbero essere analizzate da entrambe le parti dalla disavventura del Ladakh. Per l’India, sino a quando ci sarà la questione sospesa della frontiera himalayana, è da tenere presente che senza una capacità di reazione credibile in Tibet i cinesi disporranno sempre dell’opzione d’incursioni profonde in territorio indiano. La prossima volta saranno certi di giocare le loro carte in un modo più sofisticato. Per l’India l’incursione del Depsang può rappresentare un campanello d’allarme alla stregua di Kargil (situazione che portò alla breve guerra con il Pakistan nel 1999 n.d.r.), con la differenza che questa volta l’India non ha dovuto pagare un prezzo troppo alto.
(Traduzione dall’inglese di Barbara Borra)