Secondo il premier Mario Monti «alla ripresa mancano pochi mesi», quindi bisogna essere ottimisti. Ma numerosi altri osservatori descrivono una situazione economica ben diversa: chi ha ragione? Come è possibile orientarsi fra le ondate di numeri e statistiche che ogni giorno ci piovono addosso da giornali e televisioni?
di Emilio Carnevali da MicroMega on line
L’ottimismo, si sa, è virtù di ogni governante, come il pessimismo è prerogativa degli oppositori.
Storicamente non mancano celebri variazioni sul tema, dall’«ottimismo della volontà» evocato dall’oppositore Antonio Gramsci (pur accompagnato dal «pessimismo della ragione»), alla promessa di «sangue, fatica, lacrime e sudore» fatta dal primo ministro inglese Winston Churchill ai suoi concittadini, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.
È un fatto, comunque, che il potere costituito abbia tutto il (legittimo) interesse nel dispensare interpretazioni benevole della realtà, mentre chi lo avversa tenderà a mettere l’accento sulle cose che non vanno, al fine di proporsi come valida e preferibile alternativa nella futura contesa della leadership (almeno in quei sistemi dove leadership e consenso sono due termini inseparabili, cioè nelle liberaldemocrazie).
Ne abbiamo un esempio classico in questi giorni di campagna elettorale americana. Il presidente in carica, Barack Obama, sottolinea come l’economia Usa si stia (lentamente) riprendendo dalla più grande crisi economica dalla Grande depressione degli anni Trenta, rivendicando un dato sulla disoccupazione che è finalmente scesa sotto quota 8%, sui livelli più bassi dal Gennaio 2009. Il suo avversario, Mitt Romney, ripete ossessivamente che ci sono ancora 23 milioni di disoccupati fra i cittadini Usa che sono alla disperata ricerca di un posto di lavoro.
La corsa ad una presentazione edulcorata o adulterata – in un senso o nell’altro – della realtà non è del resto solo appannaggio dei politici di professione, cioè di chi è costretto a misurarsi con il momento del voto popolare per trovare legittimazione al proprio operato.
Basta guardare, qui da noi, al governo dei tecnici guidato da Mario Monti. «L’Eurozona è molto avanti nel risolvere la crisi», diceva lo scorso marzo il premier visitando la Cina. «La fine del tunnel sta cominciando a illuminarsi», rilanciava lo stesso lo scorso luglio. Ancora pochi giorni fa Monti ha ostentato un baldanzoso ottimismo: «Alla ripresa mancano pochi mesi».
Si tratta di affermazioni del tutto comprensibili e in un certo senso “doverose” per chi ricopre quella carica. Il “fattore fiducia” non influenza solo il comportamento dei famigerati mercati finanziari, dai quali dipende l’andamento del nostro spread, ma anche le scelte di tutti gli operatori nel campo dell’economia reale: la pianificazione degli investimenti, e finanche dei consumi, dipende in buon parte dalle aspettative sull’andamento futuro dell’economia, e dunque dei redditi, dei profitti, delle opportunità di lavoro che caratterizzeranno la prossima fase. Senza arrivare ad una vera e propria rimozione della realtà – come quella attuata da Berlusconi con la sua interpretazione esclusivamente «psicologica» della crisi – non c’è dunque da stupirsi, e tanto meno da indignarsi, se il governo inforca occhiali con lenti rosa quando deve descrivere la situazione economica del paese.
Altrettanto legittimo, però, è il desiderio dei comuni cittadini di sapere come stanno davvero le cose, sopratutto se non si ha particolare familiarità con certi temi.
Come fare? Si potrebbe cominciare da qualche numero, comodamente alla portata di tutti i navigatori del web. Andando sul sito dell’Istat, ad esempio, appare in mezzo alla home page un grafico dei prezzi al consumo. Cliccando sopra la voce “prodotto interno lordo” (Pil) si forma sul quadrante una bella – o meglio brutta, visto quel che ci dirà – curva rossa in picchiata. Il Pil misura l’insieme dei beni e dei servizi prodotti da un sistema economico in un anno. Pur con mille limiti – sui quali è da tempo in corso un vivace dibattito (cosa ci dice veramente il Pil della qualità della vita all’interno di un Paese?) – si tratta di un indicatore fondamentale, anche per capire le prospettive di tanti parametri “sociali” degni della massima attenzione, come il livello dell’occupazione o le risorse che saranno a disposizione delle istituzioni pubbliche per far funzionare le scuole o gli ospedali.
Lo stesso debito pubblico, questo grande spauracchio del nostro tempo, viene calcolato in rapporto al Pil, tanto è vero che sentiamo parlare quasi sempre di dati percentuali, non assoluti: ad esempio, il 3% del rapporto fra il deficit (la differenza fra le entrate e le uscite dello Stato) e il Pil, oppure il 126% del rapporto fra il debito (lo stock complessivo dei debiti accumulati dallo Stato nel tempo) e il Pil. Se il Pil diminuisce tali rapporti aumentano, perché il denominatore è più piccolo. Inoltre diminuiscono le entrate (le tasse sul reddito prodotto), cioè i soldi che lo Stato potrà utilizzare per sostenere le proprie spese. In tal modo tenderanno ad aumentare anche i numeratori dei rapporti, cioè il deficit e il debito (in realtà le cose sono un po’ più complicate, ma questo schemino rudimentale può essere comunque di una certa utilità esemplificativa).
Ecco perché le politiche di austerity hanno spesso effetti negativi anche sulle finanze pubbliche, contravvenendo il ragionamento intuitivo secondo il quale meno spendi e più “metti da parte” (a chi volesse approfondire questi aspetti segnaliamo l’ottimo articolo di Fabrizio Galimberti uscito qualche giorno fa sul Sole 24 Ore).
Nel secondo trimestre del 2012, ci dice l’Istat, il Pil italiano (al netto dell’inflazione) è diminuito dello 0,8% in termini congiunturali e del 2,6% in termini tendenziali. “In termini congiunturali” non significa altro che il dato è stato confrontato con quello immediatamente precedente, in questo caso quello del primo trimestre del 2012; quando invece la rilevazione è “tendenziale” significa che il raffronto è stato fatto con lo stesso periodo dell’anno precedente. I dati congiunturali, comunque, vengono opportunamente “destagionalizzati”, in modo da poter attuare comparazioni da un mese all’altro o da un trimestre all’altro, senza dover tenere conto di fisiologiche variazioni non dipendenti dalla maggiore o minore efficienza del sistema economico (è normale, ad esempio, che ad agosto si abbia un drastico calo della produzione dato che molti impianti chiudono).
Insomma, già questi primi numeri ci dicono che la recessione continua. Ed è pesantissima. Di segnali di ripresa, per ora, non se ne intravede nemmeno l’ombra: le ultime stime del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale assegnano all’Italia un -0,7% per il 2013).
Se si vanno a consultare i dati della produzione industriale, anch’essi disponibili con pochi click sul sito dell’Istat, il quadro appare ancor più drammatico. Tale indice misura la variazione del volume fisico della produzione effettuata dall’industria in senso stretto (ovvero dall’industria con esclusione delle costruzioni): dietro a queste fredde cifre ci sono i tanti lavoratori dell’Alcoa, dell’Irisbus, della Vinyls e di tante migliaia di altre piccole aziende che magari non riescono ad ottenere le prime pagine dei giornali ma che, analogamente alle grandi, licenziano, mandano in cassa integrazione o chiudono definitivamente. Fra gennaio ed agosto del 2012 il crollo della produzione è stato del 6,8% rispetto allo stesso periodo del 2011 (unica nota positiva un timidissimo +1,7% nel dato congiunturale agosto 2012-luglio 2012). Con uno sguardo di più ampio raggio possiamo dire che nel corso della crisi l’Italia ha visto volatilizzarsi quasi un quarto della sua produzione industriale. L’indice era a 109,3 nell’agosto del 2007 ed è a 84,4 nell’agosto del 2012: è una variazione negativa davvero inquietante, pari – per essere un po’ più precisi – al 22,9%. Nelle serie storiche queste flessioni le troviamo in genere in corrispondenza di eventi bellici.
Ci sono poi numeri che richiedono una qualche attenzione in più, come quelli relativi alla disoccupazione. Ad agosto il tasso di disoccupazione è rimasto stabile rispetto a luglio: 10,7%. Buona notizia, sembrerebbe, dato che in tempi di recessione ci si aspetterebbe un peggioramento…
Mica tanto, perché parallelamente è sceso il tasso di occupazione, che ha registrato un -0,2% sia in termini congiunturali che in termini tendenziali. Vuol dire, in sostanza, che sono aumentati gli scoraggiati: cioè tutti coloro che hanno perso anche la speranza di trovare un lavoro e non si mettono nemmeno più alla ricerca di un posto. L’Istat, infatti, considera “disoccupati” tutti gli individui (compresi fra i 15 e i 74 anni) che «hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedenti la settimana di riferimento». Gli altri escono dalla “forza lavoro” e dunque non incidono nemmeno più sul tasso di disoccupazione.
Quest’ultimo esempio ci ha dimostrato che non sempre i numeri dicono “subito” ciò che ci interessa sapere. E a volte possono essere addirittura fuorvianti. Massimo Mucchetti ha scritto che «negli ultimi trent’tanni, al tempo dell’informazione economica di massa, l’utilizzo dei numeri, più o meno manipolati, diventa la forma contemporanea della retorica che conquista i tanti privi del tempo e del modo di discuterli» (“Il tradimento dei numeri indiscussi”, Italianieuropei, Agosto 2011).
Due esempi particolarmente significativi: la classifica sull’efficienza e la correttezza dei sistemi paese del World Economic Forum o quella sulla libertà economica della Heritage Foundation, entrambe diffuse con grande clamore, e a cadenza regolare, dai nostri mezzi di comunicazione. Innanzitutto si tratta di statistiche ricavate non da analisi di bilanci e altre fonti “oggettive”, ma da questionari rivolti a campioni spesso non attendibili e non verificabili. Da tali classifiche risulta che l’Italia è più corrotta della Thailandia: «Un dato palesemente falso ricavato da una statistica a suo modo vera», è il commento di Mucchetti.
«Perché è vero che gli intervistati italiani sostengono di avvertire il peso della corruzione più di quelli thailandesi: peccato che gli italiani, scelti in prevalenza nel settore privato e poco nazionalisti, non abbiano timore di dire la loro vivendo in democrazia, mentre i thailandesi, in gran parte legati all’economia statale, devono fare i conti con un regime monarchico condizionato dai generali. Risulta, inoltre, che in Italia la libertà economica sarebbe bassa, anzi bassissima, perché la cura della salute è affidata al sistema sanitario nazionale e le pensioni all’Inps, invece che entrambe alle assicurazioni private, o perché i sindacati sono più diffusi che in altri paesi. Sarà un caso, ma quasi sempre si dimentica di ricordare come il Forum e la Foundation sono organizzazioni private, interpreti del Washington Consensus, e questa reticenza finisce per accreditare le loro sciocchezze di una terzietà che non hanno».
Le insidie della manipolazione non mancano anche quando le fonti dei numeri sono istituzioni di indubbia autorevolezza. Il problema è che spesso si comparano parametri solo apparentemente identici, come quando si dice che la spesa pensionistica italiana è molto più alta della media europea senza specificare cosa contiene, nel dettaglio, quella voce: dal Tfr (che non è contribuzione previdenziale ma salario differito) alla cassa integrazione (cioè un ammortizzatore sociale), sono molte le componenti della nostra “spesa previdenziale” che gli altri Paesi europei rubricano sotto altre categorie. Si tratta di omissioni non innocenti, soprattutto se l’intento di chi brandisce certi numeri è quello di promuovere o difendere riforme del sistema pensionistico fondate su tali assunti e comparazioni.
Concludendo: essere ottimisti è una cosa bellissima. Ma anche stare al potere pare non sia una attività priva di soddisfazioni e gratifiche. Ecco perché quando le due cose vanno di pari passo è bene diffidare e cercare di approfondire un po’ le cose.
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