Lei (Claudia Pandolfi) è una “donnina” sull'orlo di una crisi di nervi. Lui (Filippo Timi) un uomo scontroso e impossessato da un fortissimo e totalizzante complesso edipico che avrebbe mandato in brodo di giuggiole Freud.Lei, Marina, la “donnina” sull'orlo di una crisi di nervi di cui sopra, è la madre di un bimbo di due anni, età in cui – come ci si dilunga a spiegare anche nel film – i pargoli sono continuamente agitati e richiedono costanti attenzioni perché non ancora indipendenti nel movimento; per di più piangono sempre e dormono assai poco.
Bene, il bambino in questione possiede tutte le sublimi caratteristiche appena elencate. È decisamente vivace e per di più è affetto da qualcosa, ma non si capisce cosa – semplice asma forse? – beh, incredibile ma vero, non lo sapremo mai, perché la regista, nonché sceneggiatrice, nonché autrice del romanzo da cui è tratto il film, decide di sorvolare completamente sulla questione. Questo qualcosa, comunque, costringe madre e figlio a trasferirsi in montagna per un mese. La convivenza forzata proverà notevolmente la donna, già di per sé in crisi rispetto al proprio ruolo di madre.Lui, Manfred (meglio tralasciare qualsiasi commento sul gigionissimo nome del personaggio), è il proprietario della casa in cui si trasferiscono la nostra medeica protagonista e figlioletto. Manfred, reduce da due abbandoni traumatici, da parte della madre prima e della moglie poi, si diletta a ringhiare contro tutto e tutti per le due ore circa di film.In sintesi, quindi Marina/Medea e Manfred/Edipo si incontrano, probabilmente in Alto Adige(?), in un luogo comunque, che la regista immortala come se ci trovassimo proprio là, esattamente, sui monti con Annette.Dopo la prima reciproca ritrosia che impone ai due neo-coinquilini un atteggiamento di circostanziale diffidenza, una notte accade qualcosa che li porterà a scoprire la radice di un legame potente che non riusciranno a controllare né tantomeno a vivere.Proprio come la regista, che non riesce a controllare nulla del suo film a partire dalla sceneggiatura che sembra scritta su uno scontrino e infarcita di dialoghi degni di Don Matteo, passando per l'utilizzo prossemico e didascalico – fino allo svenimento – della macchina da presa; per non parlare delle interpretazioni dei due attori protagonisti, sempre (assurdo!) fuori registro.Andare oltre nella disamina di questo congegno narrativo di straziante imperfezione, sarebbe un gioco al massacro. Mi fermo qui, in attesa di domani, quando – ne avverto già l'urgenza – rivedrò Tutti a casa di Luigi Comencini, padre della regista in questione e Maestro indiscusso del nostro cinema nazionaleE per la meraviglia– quella che suscitano solo le opere totali e perfette – piangerò. Oh, se piangerò.Voto: 5