Quando le banane qualificano l'umanità.

Creato il 16 maggio 2014 da Lostilelibero
F. W. Nietzsche
La prefazione de L’anticristo nietzscheano, di fronte all’umanizzazione part-time, facilona, costretta, buona se conviene, portata in trionfo dalla risma degl’improvvisati “bananicoli”, pare persino indulgente. Beninteso, qui non si tratta di giustificare l’ingiustificabile, né tantomeno di schierarsi, quantunque allusivamente, a favore delle becere espressioni razziste che qualificano le persone in un conato di stupida appartenenza. Qualche merito, sia pur per difetto e talvolta distorto, ce l’ha pure il culto della ragione.
Tra questi vi è anche quello di aver gettato luce sulle millenarie mostruosità circa la superiorità della razza (non tutte, a dire il vero. Ad esempio, le tendenze eugenetiche dei civili popoli del nordeuropa, o una certa intolleranza d’ascendenza puritana cara alla superiore elementarietà dei thinkers americani ed australiani, rimangono ancora belle solide). Le razze, geneticamente, non esistono. Gli ultimi orientamenti degli esperti ci dicono anzi che ve n’era una sola, africana, da cui tutte le altre deriverebbero. Se la diversità razziale è un falso mito moderno relegato a sciocchezza da quella stessa scienza che, da Linneo in poi, ne aveva invece postulato la validità, è altrettanto vero che esistono apprezzabili differenze tra uomo e uomo, a prova di “razza” comune. Zarathustra, a tal proposito, non accampa dubbio alcuno: “così parla a me la giustizia : - gli uomini non sono uguali. E neppure devono diventarlo”. Differenze che non vengono da un genotipo particolare, ma che il buonsenso riesce a scorgere da solo, avulso da qualsiasi scienza che se ne faccia garante. Non importa se questa difformità derivi dall’ambiente, dalle sedimentazioni storiche, culturali, morali, dall’esercizio della volontà e del libero arbitrio, o ancora dalla singolarità che ognuno incarna, o più verosimilmente dalla commistione imponderabile e caotica di tutte queste componenti. Con buona pace dei semplificatori per spirito di flessione alle mode o per mancanza d’impegno conoscitivo, gli uomini tra loro sono diversi. Lo si chiami razzismo, ambientalismo, evoluzionismo, culturalismo, o si conino invece altri aggettivi ad hoc per qualificarne la significazione, il senso non cambia. In realtà, la spettacolarizzazione del gesto di Dani Alves, dimostra semplicemente, per contrasto, la  sordida e repressa xenofobia delle anime belle. La spettacolarizzazione della con-passione che ha impestato i media in questi giorni, non ha nulla a che vedere quindi con la lotta al razzismo. E’ l’autocelebrazione dell’impotenza, e del bana(na)lmente sterile, della sancta simplicitas quale strumento preferenziale per livellare le complessità di ciò che altrimenti rimarrebbe irriducibile, particolare, singolare. Che non si omologa alla volontà di uniforme: l’intolleranza verso l’altro da sé, anche se mascherata sotto i buoni sentimenti o il politicamente corretto. Quell’insofferenza che tradisce esclusivamente l’incapacità di accettare la diversità quale humus su cui far germogliare ogni autentica e sana convivenza (l’etimo hospis - hostis, nella fattispecie, segnala una certa comune radice). In tal senso, il sillogismo appare un gol a porta vuota: quelli che “ci mettono la faccia” ovunque e sempre, a suon di selfie e di superficiali sentimentalismi, scimmiottando goffamente, danno implicitamente ragione, col proprio comportamento “solidale”,  proprio a colui che quella banana l’aveva lanciata: se non scimmie tout court, tutti scimmiottatori! Gli spot contro il razzismo, oltre alla tranquillizzante indulgenza plenaria e alla normalizzazione del diverso, non fanno altro che mostrare l’altra metà del razzismo. Quella meno pericolosa e violenta, certamente, ma non meno subdola e meschina. Ridurre – o fingere di non vedere - le differenze per non fare i conti con le diversità, anzitutto le proprie, per far dell'"io" un generico “noi”, sodali nell’appartenenza ad una gestualità a cui, soli, non avremmo invece sentito l’urgenza di accodarci, è solo un altro modo di avere paura del diverso; anzi della diversità, la nemica del dolce mimetismo irresponsabile nella giungla della società! Essere così tutti uguali nell’appartenenza ad una nuova genia di ominidi, spaventati se privi del calore del branco, è così il massimo risultato a cui sembra tendere l’antirazzismo modaiolo dei nostri tempi. In realtà è solo ed esclusivamente un nuovo tipo di discriminazione strisciante, che ha sostituito all’ignoranza il qualunquismo morale e culturale del “pensiero unico”. E lo ha fatto, spesso, solo per mettere in mostra la propria “buona coscienza” preconfezionata e prêt à porter