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Molto meno stimo quei professionisti che dimenticando di essere cronisti, si trasformano in sacerdoti della verità. E per avvalorare l’investitura di sacralità che nessuno gli ha dato dicono che studiano i casi di cui si occupano dai tempi della guerra di Troia. Coprono in tal modo gli “strafalcioni” dovuti alle loro distorsioni visive. Come succede a taluno che per spiegare la strage di Piazza Fontana vede tutte le cose a due a due: due bombe, due taxi, due passeggeri, due borse, due anarchici e due fascisti, o un fascista accoppiato a un anarchico tanto per raggiungere sempre il misterioso numero due. Perciò sono d’accordo con Adriano Sofri.
Sono semplicemente dei visionari, degli innamorati di se stessi, persone che hanno qualche potere, e amano passare il tempo a guardarsi allo specchio per autocompiacersi e sentirsi beati nel loro narcisismo. Ma la verità non è mai dietro l’angolo e richiede, per essere raggiunta, una grande umiltà, poco rumor di piazza o di cortile, poca spettacolarizzazione. Come tutte le scoperte che silenziosamente si effettuano nel chiuso di un laboratorio. La verità non è né nelle versioni ufficiali, né nelle espressioni delle maggioranze, né, tanto meno, in tutto ciò che appare. Infatti l’evidenza è spesso ingannevole, le maggioranze procedono per spinte soggettive, i tribunali sono talvolta impotenti e talaltra incapaci di definire una verità nella sua interezza. Così le vittime rimangono doppiamente vittime.
I giornalisti, sono convinto, possono dare un grosso contributo alla conoscenza, se fanno bene il loro mestiere. In caso contrario possono nuocere alla verità. Se, smettendo i loro panni, ne indossano altri, anche se questi gli vengono troppo larghi e dànno loro l’aspetto alterato di ciò che non sono, come i clown di un circo equestre.
Allora non li sopporto proprio. Specie se mettono le dita nelle tragedie e nei lutti delle famiglie e degli uomini, riducendoli a pretesto di narrazioni senza senso, finzione, falsificazione madornale. L’ultima, appunto, la strage di Piazza Fontana, e il recentissimo Romanzo di una strage. Ottimo regista Marco Tullio Giordana, ma carente nel suo rispetto della verità dei fatti. L’avevamo già notato ne I Cento passi su Peppino Impastato. Un film dove, per amore di un modello estetico e politico precostituito, erano state attribuite al militante di Democrazia proletaria una scuola e una cultura moderata e appiattita che Peppino Impastato non aveva proprio. Ma i nostri sono tempi in cui la verità non è quella reale, ma quell’altra, meno antipatica forse, che chiamiamo virtuale.