Ritenevo che ci pensasse un po' su, e invece lo sapeva, era pronto.
- Allenatore...
E qui, come percorrendo l'istante prima della propria morte, quando filmografia vuole che ci ricompaia davanti agli occhi tutta la nostra vita, o almeno, i fotogrammi salienti, sono sprofondato in uno squarcio temporale, dilatato e in bilico sull'orlo di un buco nero. Stranamente, in una valanga di pensieri frenetici e flemmatici insieme, mi sono visto in tribuna su qualche campetto di periferia, poi sulle gradinate di una palestra, e anche sugli spalti di uno stadio a guardare giù mille e mille partite tra una squadra nemica e la squadra nostra, quella allenata da mio figlio che così presto, a sei anni, aveva già capito quale fosse la sua fottuta strada nella vita e con chiarezza e decisione l'aveva imboccata e perseguìta. Due, tre decimi di secondo in cui ho sentito l'odore del fango, del sudore, le grida dei tifosi, le incazzature e il fuoco dell'orgoglio dentro al mio cuore. Due, tre decimi di secondo infiniti e scardinati dalle convenzioni temporali. Due, tre decimi di secondo in cui mi son figurato interviste in tivù, coppe alzate al cielo e camminate a testa bassa verso un esonero.
Due, tre decimi di secondo prima che sentissi il resto:
- ... di Pokémon.
Chiusura del cerchio. Fine. Due, tre decimi di secondo che mi hanno adulato, illuso, irretito fino a portarmi alla compiutezza di una frase che trafigge come uno stiletto.
Allenatore di Pokémon, signori miei.
Al ché avrei voluto dirgli che è un lavoro che non esiste, un lavoro che non è retribuito, un lavoro che non ti darà mai un diritto a pensione. Un lavoro che tu, figlio mio, non avrai la minima possibilità d'intraprendere.
Poi è bastato ripensare alla situazione che viviamo, al mondo del lavoro in Italia, per valutare che forse non è poi così utopistico un mestiere come quello.
E allora sono stato zitto.
Ma zitto.