Quando si arriva al punto

Creato il 09 marzo 2015 da Massimo Citi

Sono arrivato al punto. Che non è, come sanno tutti coloro che scrivono, il termine del racconto o del romanzo, breve o lungo, ma il punto nel quale dovete spiegare la radice fondamentale del contrasto e con esso la ragione per il quale il testo è nato. Il momento nel quale dovete chiarire il motivo per il quale il testo è stato scritto e perché vi urgeva la necessità di farlo. Il che non è facile. Si può rimandare alla fine, certo, lasciando però troppi fili a pendere nella vostra personale ragnatela, col rischio di non chiuderli tutti e che il finale risulti insufficiente e non sciolga tutti i motivi del testo. Con il lettore - oltre, naturalmente a voi stessi - che rimane dubbioso: «Non è male, però...» È anche un problema di lunghezza, ovviamente. Mentre in un racconto, lungo al massimo 30.000 - 50.000 battute, la necessità di presentare il retroscena di ciò che accade (che in genere è unico) fa immediatamente parte del testo, in un romanzo - lungo o breve - la necessità di presentare il retroscena o i retroscena  diviene sempre più urgente e necessario con il proseguire del testo.  L'ottimo Cortazàr - poi ripreso da Isabel Allende - distingueva il racconto presentandolo come una freccia puntata sul bersaglio, dove ogni parola ne rappresenta la direzione e il verso, mentre nel romanzo sono ammesse divagazioni, parentesi per riflettere, osservazioni apparentemente fuori luogo, purché a un certo punto si giunga a un redde rationem nel quale anche i passaggi apparentemente oziosi contribuiscano a costituire un insieme credibile. Chi legge sa bene che un buon romanzo[*],  ovvero un buon prodotto di artigianato, non lascia dietro di sé interrogativi non spiegati o risolti con soluzioni banali o che fanno appello a elementi che non appaiono nel testo. 
Un paio di anni fa mi capitò di recensire un libro, Una luce nella foresta di Paul Torday, romanzo che detestai profondamente: 
Con un finale che sbanda tristemente sul misticheggiante, dimenticando una delle regole d'oro del gotico: mai tirare in ballo entità superne appartenenti alla propria religione e men che mai inscenare "interventi divini" per sgrovigliare un horror che sta appassendo. Il passaggio dal fantastico al meraviglioso (sacro) continua a non funzionare, nonostante Torday faccia il possibile per tenere alta la tensione.  
Ciò che disapprovavo di Torday, in sostanza, era l'intervento di un elemento sovrannaturale (l'intervento divino) che non appariva in precedenza e che aveva la semplice funzione di "far quadrare i conti" al termine della vicenda. Un intervento divino, ovvero il più classico dei Deus ex machina, ha una possibile cittadinanza in un horror - basti pensare a L'Esorcista - purché appaia come elemento sistemico del quadro rappresentato. In sostanza mentre nella Bibbia Dio è personaggio del tutto degno di considerazione, nel finale del libro di Torday è un semplice cerottone introdotto all'ultimo minuto utile per salvare la baracca e burattini. 
Chiedo scusa a Dio e a Torday, oltre ai miei lettori, per il lungo interludio. 
Il mio problema è quello di evitare l'intervento di Dio o di qualche misteriosa organizzazione multisistemi dedita a scopi deprecabili o del supereroe di turno o, come nei massacri di babacci e bambole di mia figlia, dove appariva una creatura di Lego Duplo, annunciato dal famoso urlo: «'decio 'riva Zuzu che ammaccia tutti». E la spiegazione del retroscena - di uno dei retroscena - di ciò che è avvenuto non può che venire da un villain, ovvero da uno di coloro che appaiono come antagonisti dei principali attori della vicenda.
Ma qui non termina il mio impegno. 
Può essere un semplice dialogo, ad aver il compito di spiegare ciò che è accaduto e ciò che accadrà. 
O una lunga confessione (un "pippone", sostiene mia figlia). 
O un duello, come avveniva nei film di cappa e spada, nei western o nei noir, laddove spade o revolver sono sostituiti da un paio akkiappagonzytroni branditi dai due rivali. Giusto perché si capisca che si tratta di fantascienza. 
Mah. 

In ogni caso ho parlato prima di retroscena multipli, ognuno legato a un particolare progetto delle forzi operanti. Quindi questa scena - che grazie a Dio ho già iniziato - non può spiegare tutto, dal momento che anche l'antagonista non può essere al corrente di tutto ciò che si muove sotto il ghiaccio. 
Ho una vera passione a complicarmi le cose, come si vede. 
D'altro canto nessuno mi ha mai garantito che la realtà sia, in ultima analisi, semplice. 
La parte principale delle domande sono comunque affidate al mio buon Paulo Tan Low (beh, proprio buono non direi) e alla sua discussione con protagonista e deuteragonista, discussione che dovrà chiarire le idee ai lettori e spiegare perché è avvenuto tutto ciò che  avvenuto. 
Il che, tenendo conto che avevo l'intenzione di tentare di comprendere che cosa muovesse l'ISIS, non è esattamente facile. 
D'altro canto la fantascienza - come tutta la narrativa esistente - ha lo scopo di rappresentare e interpretare la realtà, di costruire specchi adatti a raffigurarla o immaginare altri mondi perché possano rappresentarne taluni aspetti non ancora sufficientemente evidenti, filtrarla perché si riveli comprensibile - o reciprocamente per perdersi nella sua infinita complessità -, restituirla poeticamente mutata ai lettori perché ad essi sia data la possibilità di capire il proprio ruolo nel mondo e comprendere la propria posizione di fronte a temi eterni come la morte e l'amore. 
...
Che poi non è tutto qui, nemmeno questa volta.
...
Ci rivediamo dopo questo passaggio. Che spero di risolvere degnamente. Sono a 185.000 caratteri, comunque, e il progetto enunciato in un altro post direi che resta verosimile.
Spero.  
     

[*] non necessariamente un capolavoro, per i quali valgono almeno in parte leggi diverse.     

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