QUANDO SI SPENGONO LE LUCI - di Erika Mann

Creato il 14 gennaio 2014 da Ilibri

Titolo: Quando si spengono le luci
Autore: Erika Mann
Editore: Il Saggiatore
Anno: 2013

Figlia primogenita di Thomas Mann, la poliedrica Erika (performer, saggista, scrittrice, conférencier, giornalista e infine curatrice del lascito letterario del padre e del fratello) non delude consegnandoci una raccolta di dieci storie che la stessa voce narrante ribattezza, nel loro complesso, una schietta «cronaca di fatti». Protagonisti, accadimenti e situazioni raccontate non sono altro che la trasposizione letteraria di circostanze reali. Non a caso, intenzione originaria dell’autrice era quella di titolare la sua opera “Fatti”. Fatti che dovevano testimoniare in quale condizione materiale e mentale (soprav)vivessero le persone comuni della Germania del Terzo Reich. Le dieci vicende narrate in Quando si spengono le luci sono

storie accadute a gente qualsiasi, persone né particolarmente potenti, né particolarmente eroiche, né colpite da una sfortuna eccezionale, né di natura eccezionalmente criminale.

Uomini e donne comuni, ritratti negli anni immediatamente a ridosso dell’invasione della Polonia e dello scoppio “ufficiale” della Seconda Guerra mondiale. Uno straniero in visita in una piccola città di provincia, due giovani fidanzati, un piccolo commerciante, un ricco industriale, un professore universitario, un ufficiale della Gestapo, un giovane contadino che lascia la campagna, un marinaio, un pastore evangelico, il primario dell’ospedale cittadino, un redattore culturale... questi i protagonisti. Intorno a loro si muovono altri individui: mogli, SA, bellissime ragazze ebree, fratelli, amici, conoscenti, ecc. Il filo comune è che tutte queste storie si svolgono tra le vie di una piccola città bavarese: tornano i nomi di alcune strade, piazze, locali... e alcuni personaggi ricompaiono in più di un racconto. La parola eroe viene utilizzata in una sola storia, a proposito di Franz Deiglemeyer, capo della Gestapo della piccola città bavarese e uomo che «decise di agire contro gli ordini ricevuti»: l’ufficiale avvisò infatti tutti gli ebrei della città in modo tale che potessero fuggire all’indomani della notte tra il 9 e il 10 novembre 1938. Eppure si tratta di un eroe perduto. Anche la parola miracolo la si legge in un solo racconto, quello che ci parla della fuga del pastore Gebhardt dalla prigione cittadina. Tuttavia il tono dell’autrice si mantiene sobrio e distaccato, come a negare qualsiasi possibilità di credere a una manifestazione della grazia divina: «Non sta a noi descrivere la storia della sua fuga, che assomiglia a una fiaba. Addirittura saremmo quasi tentati di usare il termine “miracolo” – parola che però si dovrebbe usare con estrema parsimonia in una cronaca di fatti.» E i fatti sono quelli che costringono i piccoli commercianti a chiudere bottega perché la loro attività non è più considerata sostenibile da parte della comunità; i fatti sono quelli che portano al suicidio due giovani tedeschi per “salvare” la loro dignità dall’esito scontato di un processo-farsa; i fatti sono quelli che portano una madre ad accusare un ictus (e a morire) subito dopo aver ricevuto la notizia dell’assassinio del figlio “colpevole” di aver partecipato alle riunioni del sindacato antinazista di New York. I fatti sono quelli che costringono un giovane contadino ad abbandonare la terra perché in campagna non c’è più cibo sufficiente per tutti; i fatti sono quelli che spingono un docente universitario a ispirare nei suoi allievi un’«insubordinazione in pectore»; e così via. Vite qualsiasi, tipici abitanti di quella che potrebbe essere una qualunque città tedesca negli anni 1938-1939: uomini «depressi e confusi. “Vittime delle circostanze.” È destino, pensavano, il nostro destino, il destino della Germania. Solo in rari momenti di chiarezza che mutava in spavento si ponevano la domanda riguardo a chi avesse la responsabilità di tutto ciò». Dunque esiste, o può esistere, la domanda sulla responsabilità. Anche nella Germania nazista della fine degli anni Trenta. Anche quando le coscienze sembrano anestetizzate. O annichilite. Questo, oltre all’evidenza dei fatti, ciò che emerge chiaramente nei vari racconti di Quando si spengono le luci. Così come chiaramente emerge il fatto che ciascun uomo chiamato a confrontarsi con la propria coscienza offrirà risposte differenti: chi asseconderà il proprio e/o l’altrui egoismo, chi si ribellerà, chi cercherà una via di fuga, chi continuerà unicamente a sopravvivere.

   Un libro che merita dunque di essere letto per quello che racconta, per ciò di cui ci informa. Ma anche per come è scritto. La cosa interessante della scrittura di Erika Mann è il cortocircuito che si crea tra il suo stile secco, scarno, ai limiti dell’asepsi e la tragedia che sta raccontando, quella di un’intera nazione che sta votando se stessa alla guerra. Interessante è anche la decisione di far precedere ogni racconto da un’illustrazione: le rappresentazioni della piccola città bavarese, con le loro didascalie rassicuranti circa il procedere tranquillo della vita in paese, entrano in contrasto con le storie che ci vengono narrate subito dopo, vicende di privazioni e vessazioni, di vittime e di aguzzini, di egoismi personali e di sofferenze. Un contrasto, credo, atto a smovere le coscienze di chi legge (ricordiamo che questi racconti vengono scritti quasi in presa diretta, nel 1939), come se l’autrice volesse dirci che la realtà è ancora rappresentabile, ancora decodificabile, e che per questo ciascuno di noi è chiamato a confrontarsi con essa e a dare una risposta.

   Una menzione, infine, anche alla curata postfazione di Agnese Grieco, che chiude quella che è (sorprendentemente!) la prima edizione italiana di Quando si spengono le luci. Postfazione interessante in quanto il lettore può trovarvi sia chiarimenti circa il periodo storico in questione, sia alcune preziose informazioni biografiche a proposito dell’autrice stessa.

Voto i-LIBRI:

   

   

   

 

Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :