Credo di non aver mai avuto un grande talento immaginativo. Il mio è sempre stato un tipo di fantasia molto attinente alla realtà. Una capacità di astrazione con i piedi per terrà - se così può essere definita la mia maniera di creare mondi paralleli a quello in cui viviamo. Un palloncino gonfiato con un gas più leggero dell'ossigeno, e che per questo tende a volare via, trattenuto da una cordicella legata al polso di un bambino.I miei sentimenti assomigliano al modo che ho di immaginare: non solo tendo a 'realizzarli' con gesti pratici quando voglio comunicarli, ma anche li 'sento' in modo fisico, con le orecchie e con il corpo - non con la mente o con il cuore - quando provo qualcosa per qualcuno. Non assomiglio al poeta isolato dal mondo, il quale, chiuso nella sua torre e dall'alto di quella, 'avverte' sulle proprie spalle la sofferenza dell'universo e subito dopo la detta alla tastiera di un computer.No: io il 'sentimento' lo sento assieme all'urlo del bambino appena nato, non prima, quando è ancora un ammasso ordinato di poche cellule. E nemmeno dopo, quando ha smesso di gridare, resta in me il rumore di quel pianto: l'eco piano piano evapora, il ricordo si fa sempre più annebbiato. Direi che i miei sentimenti vivono in sintonia con ciò che li origina e con il grado di forza con la quale vengono suscitati. Nulla è stato tanto potente quanto l'istante in cui ho visto i miei figli nascere. Sia i minuti precedenti a questi avvenimenti, nei quali avevo cercato di immaginare come le cose si sarebbero svolte, che quelli immediatamente successivi hanno avuto un impatto emotivo molto più ridimensionato rispetto al momento esatto della nascita. Non è una cosa scontata e banale quella che sto dicendo, dato che tanti affermano di ricordare "come se le rivivessero" simili esperienze. Per me, invece, il 'rivivere' per mezzo dell'immaginazione o del ricordo non ha senso, non ne sono capace, mi serve la fonte concreta dell'ispirazione sentimentale. Un sentimento - mi rendo conto adesso mentre lo scrivo - sono incapace di sentirlo astrattamente. Non so sentirlo, ma so 'ascoltarlo', però mi ci vuole prima una voce che lo scateni.Quando sono nati i miei figli mi sono commosso non perché loro fossero i 'miei' figli, i miei successori, il mio patrimonio genetico profuso con egoistica generosità. Ciò che di potente ho avvertito sono state le loro urla, gli occhi chiusi che cercavano faticosamente di aprirsi alla luce del mondo, lo sguardo e i muscoli contratti nello sforzo immane dell'appropriarsi della vita, come quando in mare, dopo un'apnea troppo lunga, squarciamo il soffitto d'acqua che ci sovrasta e improvvisamente torniamo liberi, allarghiamo le braccia e il torace nel vento, ci gonfiamo i polmoni con tutta l'aria che vogliamo.Quando ho visto nascere i miei figli, ho combattuto e sofferto come loro finché anch'io non ho urlato e non sono nato assieme a loro. Ho visto me stesso rinascere, ma non con la pura immaginazione, non come un modo di dire. Quando sono nati i miei figli, è con i miei stessi occhi che mi sono visto rinascere. Ed è con queste mani che, ancora una volta, ho potuto toccare una corda che dal mio polso di bambino non si è mai del tutto staccata.