Quanto è difficile rendere brioso il banale

Da Marcofre

Quando si afferma di apprezzare autori come Raymond Carver, non è raro incontrare persone con un’idea del lavoro dello scrittore statunitense piuttosto severa.
In fondo, dicono, scrive di banalità. E hanno ragione.

La difficoltà per chi si cimenta nella scrittura, ha inizio quando cioè questa banalità (per esempio la vita quotidiana), deve assumere delle caratteristiche tali da fissarsi nella testa e nei sensi di chi legge.

Ed è qui che la faccenda si complica, e si nota la differenza tra un autore, e uno che prova a scrivere. Il secondo pensa che basti poco impegno per ottenere certe storie; il primo sa che scrivere è un processo radicale. 

Prima di tutto, è necessario maneggiare bene la lingua. Non solo evitare errori di sintassi e grammaticali, ma usare le giuste parole.

Maneggiare nel suo significato più remoto, indicava il governare; e scrivere è anche questo.

La scelta di un’espressione, di una parola, non è mai immune da ripercussioni o conseguenze. E deve essere radicale nel senso che occorre “scendere”, arrivare a dove scorre il sangue e la carne è viva. Per questo motivo si prende un episodio della vita (uno sfratto; una coppia alla deriva), e si comincia a scuoiarlo.

Per certi lettori sarà solo uno sfratto o una coppia alla deriva: robe che si leggono tutti i giorni sui quotidiani. Che senso ha scrivere dei racconti o romanzi su questi fatti?

Ha senso perché un autore ambizioso ha imparato, spesso sulla propria pelle, che dietro i piccoli eventi sono in azione motori potenti. Quindi per prima cosa impara a fermarsi, a piegare le ginocchia e a raccoglierli. Però siamo appena all’inizio di un viaggio, e la sua destinazione deve essere l’arte, o almeno occorre provare ad arrivarci. Questa è l’unica ambizione di un autore: l’arte. O arte, o morte.

La coppia alla deriva, lo sfratto, funzionano sulle pagine di un giornale; ma perché mettano in moto la malia che incanta il lettore, lo scrittore deve procedere in modo differente.

Costui coglie dietro gli eventi gli occhi, le mani e la carne dei personaggi. È su questo materiale che è chiamato a erigere la sua opera. Non c’è nulla di più delicato e pericoloso da gestire, perché scivolare nello stereotipo è facile. Abbracciare il cliché credendo che sia un amico è ancora più facile.

Ci vuole coraggio. Questa è una caratteristica che in chi scrive vuol dire per esempio: attendere. Settimane o mesi. Poi si riprende quanto si è scritto e lo si rilegge. No, il coraggio non è affatto pubblicare “così com’è, tanto andrà bene. Carver scriveva così”.

Non scriveva così perché riscriveva tantissimo. Il coraggio si cela nell’attesa che il testo si stabilizzi, le scorie scivolino sul fondo, e appaia la sua vera natura.

Altra sfumatura del coraggio è l’eliminazione. Sì insomma: occorre cancellare. Nel dubbio, cancella. Non è carne quella che ammiri tanto: è grasso. È il muscolo che si incarica di sollevare la storia, di renderla forte e in grado di arrivare alla fine. Muscolo e ossa e tendini. Un mucchio di roba, come si vede: infatti prima ho parlato di “governare” giusto? Esiste anche il rischio di eliminare troppo, ma non credo. Se c’è qualcosa di buono in quello che getti, tornerà.

Altrimenti tanti saluti.


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