Quarant’anni fa il decollo definitivo del dirigibile di piombo

Creato il 11 novembre 2011 da Postscriptum

Come si fa a parlare di un album storico, scritto da una grandissima band del passato ma ancora attuale, che non ha nemmeno un nome (unico e universalmente riconosciuto) con cui essere chiamato?
Nel caso di Led Zeppelin IV, o ZoSo, o The Fourth Album, o Four Symbols, o Sticks, o Runes, o Untitled, o The Hermit, o IV, o come cacchio volete chiamare il quarto album della band inglese sono le tracce in esso contenute a determinare i confini della grandezza degli artisti che lo hanno inciso.  I Led Zeppelin di Page e Plant se ancora non lo aveste capito.

Solitamente è il secondo album di una band quello che tiene tutti col fiato sospeso: da un lato i fan che aspettano ansiosamente di vedere se la band è davvero meritevole di essere ascoltata o il successo del primo disco è stato solo un gran colpo di culo; dall’altro la band stessa desiderosa di spararsi un altro album da primi posti in classifica e dimostrare che…il successo del primo disco non è stato solo un gran colpo di culo.
I Led Zeppelin tutto sono stati però tranne che abitudinari e, in un certo qual modo normali, infatti per Plant, Page, Bonham e Jones niente è stato più fuori dai canoni che la loro carriera, e di questo, Led Zeppelin IV è la conseguenza primaria e più evidente.

Il quarto album dei Led Zeppelin è stato forse il migliore della band inglese, un successo musicale e commerciale come se ne erano visti solo ai tempi del dualismo Stones/Beatles: tutti i misteri, le dicerie, le accuse di satanismo e l’alone minaccioso che circondavano le figure di Plant e Page sono qui condensate in 8 stupendi brani, una summa maxima del pensiero zeppeliano e dell’arte folle dell’istrionico quartetto.

L’apertura è spiazzante: la voce acuta e graffiante di Plant introduce un possente riff di chitarra. Questo è Black Dog (link), pezzo dichiaratamente ispirato (perlomeno nella struttura) da Oh Well (link) dei Fleetwood Mac primo periodo. Page non ha mai fatto mistero dei suoi apprezzamenti per il bluesy chitarrista dei Mac, Peter Green (tra l’altro troppo ignorato dalle masse), tant’è che nel 2000 suonò spesso il brano in questione (link) nel corso famoso tour assieme ai Black Crowes (documentato su Live At The Greek). Tuttavia la paternità del riff non è da attribuire al chitarrista ma a John Paul Jones, che – a suo dire – lo scrisse dopo aver ascoltato Electric Mud di Muddy Waters. Il suono delle chitarre in Black Dog è strano, sembra innaturale? Ci credo, Page attaccò il jack della sua Gibson direttamente ad un Limiter Preamp e registrò ben quattro tracce che poi furono successivamente sovraincise. Bel casino, eh? Forse i Ledz non erano poi quei sempliciotti che certa becera critica non smetteva di denigrare. Jones, forse incazzato anche per queste infondate lamentele, nelle sue intenzioni aveva scritto il riff per un tempo diverso (prima 3/16 e poi il 5/4 noto). Bonzo però se ne fregò altamente e tenne un semplice 4/4. Il risultato è questo tempo dispari che ancora oggi manda all’aria i piani di molte giovani band intenzionate a coverizzare il brano. Ciò che praticamente desiderava Jones era che nessuno potesse ballare il pezzo. Ci riuscì! Il nome del brano era in principio assolutamente provvisorio, venne in mente ai tizioni osservando un vecchio cane randagio nero che si aggirava nei dintorni di Headley Grange. Il testo invece parla di sesso e ciò non è assolutamente una novità per la band!

Si passa poi all’apocalitico rock ‘n’ roll di Rock And Roll (link), una vera lezione su come si costruisce e suona un pezzo rock. Una prova da manuale per tutta la band. Dio come spacca questo pezzo!!! Uno dei miei preferiti di sempre e in assoluto. Ad un certo punto del brano – probabilmente passava di lì – Nicky Hopkins (famoso turnista. Lavorò con i Beatles, gli Who e parecchi altri. Ma soprattutto era considerato il pianista degli Stones, che essendo come al solito strons, non lo accreditarono mai come membro effettivo) si mette a suonare il piano martellando sui tasti come se fosse l’ultima suonata prima della fine del mondo. Forse è il pezzo più semplice mai suonato dai Ledz – in questo c’è la ragione della sua riuscita – ed è la risposta del Martello degli Dei alle critiche di chi dopo il III dirigibile diceva che non sapessero più rockeggiare. La batteria è grandiosa, ma bisogna ascoltarla con moderazione, soprattutto nell’età dello sviluppo adolescenziale, perché potrebbe provocare anch’essa cecità. E quando Page comincia il suo assolo, vi prego mamme, tappate le orecchie ai vostri figli. Dio, che pezzo!

A stemperare i furori subentra il terzo brano: The Battle of Evermore (link),  che sarebbe stato benissimo nella scaletta del precedente album. Pezzo intrigante, mette quasi in apprensione nel suo crescendo  di mandolino e chitarra acustica. Plant fornisce una delle sue prove vocali migliori di sempre, ed il duetto con Sandy Danny dei Fairport Convention, è da brividi. Qualche imbecille si è azzardato a dire che il brano rimandi alla battaglia finale dell’Apocalisse di Giovanni. Ma come direbbero a Modica: chisti su ‘zzunnati! L’ispirazione proviene per l’ennesima volta da Il Signore Degli Anelli (come già era successo con Ramble On), essendo Plant un appassionato di Tolkien.

Quarto brano è Stairway To Heaven (link). E, se devo essere sincero, mi sento un po’ indegno del ruolo. Come fare a parlare di questo pezzo? E poi in effetti si è detto così tanto che è quasi inutile dilungarsi: una delle più belle canzoni della storia del rock, dettata dal diavolo o scopiazzata da altri (ne ho parlato nell’articolo: E se i ricchi piangevano, anche i Led Zeppelin copiavano…), esoterica, presuntivamente satanica per più versi o quanto meno falsamente angelica. Tante fissariate di cui mi sembra inutile discutere, anche perché poi con ‘sti ascolti al contrario è facile potergli far dir di tutto alle canzoni. Tanto è confusa la voce che potrebbe trattarsi anche di messaggi subliminali inneggianti a belluscone. Tornando al pezzo, quello che mi sembra sia stato poche volte rilevato è che il perfetto assolo di chitarra di Page, venne fuori solo dopo svariati tentativi falliti. Il punto è che Page non era poi il migliore dei chitarristi provenienti dagli Yardbirds (link a Dazed And Confused). Soprattutto era uno che non si preparava mai gli assoli e cercava sempre l’improvvisazione, così – non essendo dotato di grandi doti tecniche – spesso combinava porcate (anche se mai in ambito di legge elettorale, eh!). Magari era quella sporcizia che ha reso uniche le sue epiche ed imprecise schitarrate (si pensi a Heartbreaker o a Whola Lotta Love) e probabilmente con Jeff Beck (link ad You Shock Me) i Led Zeppelin non sarebbero stati quello che sono stati, tuttavia per un pezzo come Stairway To Heaven occorreva un po’ di un impegno in più. I dilemmi che affliggevano Page in quel contesto sono evidenziati anche dal fatto che il chitarrista – per il suo assolo – non suonò la ormai solita Les Paul, ma andò a ripescare quella vecchia telecaster (tra l’altro vendutagli da Beck) che aveva utilizzato nei primi due album. Il risultato è emozionante, stranamente pulito e seminale anche per l’heavy che verrà.

Misty Mountain Hop (link) segue il capolavoro e non sfigura. Bel pezzo beatlesiano ma acido, con un organo elettrico che esalta le capacità e i gusti jazzy di John Paul Jones. La voce di Plant è impressionante, intonata alle note acide di cui dicevo prima. Il testo ancora una volta fa riferimento a Il Signore degli Anelli.

Segue Four Stiks (link), forse il brano più particolare e strambo dell’album. Il percussivo Bonzo è il protagonista del pezzo, con una andatura tribale che anticipa parecchie mode dei nostri giorni. Su questo sfondo si muove un ossessivo riff di chitarra, tagliente come una lama impazzita. Si alternano fasi da volo onirico. Le sonorità sono moderne e indicano i percorsi che poi Plant seguirà anche da solista.

Going To California (link) è un tipico pezzo folk (l’ennesimo fuorisciuto da Led Zeppelin III oppure dobbiamo convincerci che i Ledz hanno sempre avuto un’anima acustica?), influenzato da certe cose di Joni Mitchell.

Ma a mio parere il vero capolavoro immeritatamente sottovalutato è il brano di chiusura When The Levee Breaks (link) (il mio pezzo preferito). Venerare Bonzo è un dovere per ogni buon fedele e sono prestazioni come questa ad essere i segni tangibili della veridicità di tale dottrina e fede. Ogni colpo di bacchetta e di pedale corrisponde ad un tremore dello stomaco. Ma siamo davvero sicuri che suoni con le bacchette e non stia abbattendo sulle pelli le sue possenti braccia da vichingo?!? Ma quanto è massiccio questo brano?!? Certo che non potevano continuare a suonare i Led Zeppelin senza Bonham, mi pare logico e naturale! E se questa canzone è in realtà un blues di Lizzie Douglas (link) (meglio nota come Memphis Minnie McCoy), questa è una certezza che può derivare solo dall’ennesimo atto di fede. La struttura è totalmente cambiata. Eppure l’anima blues è presente sin dall’inizio per mezzo sia della distorta armonica che dell’accordatura particolare della chitarra di Jimmy Page. La voce di Plant è di tanto in tanto filtrata da un phaser ed è lacerante almeno tanto quanto l’armonica. Gli intermezzi aperti, ariosi, con le chitarre distorte alte e vibranti sono una vera poesia e non si è mai sentito un Plant più incazzato. Il mal di stomaco è davvero incontenibile, c’è qualcosa di magico in questo brano, qualcosa che smuove le budella fino a renderle fruste in movimento. Questo, signori, è l’Hard Rock!

Questo album è stato al centro di numerose polemiche nel mondo della musica, c’è chi lo ha sfruttato come prova evidente del mai negato satanismo della band, chi lo menziona con circospezione perchè crede sia stato dettato da Satana in persona e chi è convinto che gli 8 brani siano in realtà una spiegazione di quello che avverrà nei mesi successivi ai quattro ragazzi inglesi.
Satanismo o no, gli Zep non hanno mai smentito una sola accusa rivoltagli accrescendo così la curiosità e la loro (pessima) fama negli ambienti della musica ma hanno consegnato alla storia uno degli album più stiliticamente interessanti, pieno zeppo di contenuti e autocelebrativi che una band abbia mai scritto.

Pensate a The Battle Of Evermore dove Plant racconta dell’alleanza tra la Signora della Luce e il Signore delle Tenebre per sconfiggere il nemico comune in un epica battaglia e cercate di leggervi dentro quanto Robert Plant e Jimmy Page siano stati assuefatti dalle opere di Tolkien; a Four Sticks, vero e proprio testamento musicale di Jonh “Bonzo” Bonham registrata con la batteria installata in una buca del terreno per ottenere un effetto incredibile; alla splendida Stairway To Heaven, un capolavoro di ritmo, contenuto e cambi di stile come se ne sono visti pochi nel corso degli anni.
Che poi il disco fosse stato scritto da Page e Plant in tutta solitudine presso una fatiscente cascina in una desolata campagna inglese denominata Bron-Y-Aur (lett. Bromrar)e che fosse stato registrato a Headley Grange, un luogo misterioso dell’entroterra inglese più adatto a far da scenario ad un horror di Edgar Allan Poe, serve solo a consegnare il disco alla leggenda e alla credenza comune che i Led Zeppelin, in fondo in fondo, per davvero non erano normali.

Questo post è nato da un’idea del puntualissimo calendario umano che è Guglielmo Pacetto, dalla passione incessante di Michele Paolino per i Led Zeppelin e dalla preparazione enciclopedica del nostro Babar da Celestropoli.


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