Quarant'anni nell'armadio di mamma: gli anni settanta
Da Stanford
@stanfordissimo
Avvenne tutto probabilmente verso la fine di un ottobre del 1969, ma forse già da un po' i loro sguardi si incrociavano furtivamente tra le occasioni familiari come compleanni e cene abituali.
Forse entrambi erano già genitori, di certo parenti, ma prima di esserlo erano un uomo e una donna. Tra loro due famiglie formatesi forse nel caos del 68.
Giovani e pieni di ribellione, me li immagino ritrovarsi spesso a discutere tutti insieme di amore libero, politica e famiglia, ad immaginarne una che rompesse gli schemi bigotti nei quali erano cresciuti. Forse, accade al mare una sera di autunno accanto ad un falò, finalmente soli e liberi si sono amati così i miei genitori naturali. Purtroppo però quel desiderio bruciante fomentato dall'infelicità che li aveva attratti, li allontanò quando mia madre scoprì di essere incinta di suo cognato.
D'amore penso si sia trattato, se negli anni in cui abortire era un modo per affermare la propria indipendenza e diritto a scegliere, lei non lo fece e invece di sminuzzarmi consegnandomi al nulla dal quale ero stato chiamato, mi lasciò lì ad aspettarla. Si, perché anche se era incinta di me, ero io che la aspettavo, che aspettavo senza difesa che la luce mi mostrasse il suo volto.
La vita non è mai ovvia e qualcosa andò storto, poiché il ventitré giugno del settanta quel volto e quella luce io non li vidi, pur venendo al mondo e per avere una famiglia aspettai altri tre anni, passando dall'ospedale all'orfanotrofio. Ma ero un bambino speciale, qualcuno che forse non poteva amarmi come avrebbe voluto mi riconobbe, mi diede un nome prima di lasciarmi, Fabrizio, come il De André cantante genovese che credo lei ascoltasse nell'attesa e nel tormento su come sistemare la sua situazione.
Che anni quelli, anni di piombo, anni in cui i cambiamenti si generavano con violenza per la società e anche per me nel mio piccolo. La mia adozione venne dichiarata “protetta”, ma nulla mi protesse davvero se non il cielo in qualche buffo modo.
Guardavo le scarpe di mia madre “come se fosse mia madre”, col tacco quadrato e alto in similpelle bordeaux e maxifibbia in finto osso con stupore e di lei fotografavo ogni cosa.
I suoi occhiali neri e grossi tanto simili a quelli che consideriamo “moderni” oggi, si abbinavano al capello corto e cotonato che le facevano sembrare la faccia piccola, la manica del suo cappotto marrone a losanghe era ruvida, lo sentivo sulla mano piccola ogni volta che mi sfiorava mentre camminavamo per mano.
Quella donna non portava i pantaloni tanto in voga verso la fine degli anni settanta, non come forse li aveva portati la mia madre biologica, attillati e a zampa di elefante, e neanche la minigonna che li aveva preceduti. Non c'era nessuna ribellione estetica nei miei genitori adottivi, nessun tipo di sperimentazione moderna del concetto di famiglia. Niente di “stupefacente” a casa nostra che era arredata secondo il gusto dell'epoca e le modeste possibilità di papà, preoccupato per la crisi petrolifera del 73 e le norme di “austerity” energetica a cui ci si doveva assoggettare. Ma da li a poco lui e sua moglie sarebbero stati considerati come “pari” dalla società, anche se non credo che fossero coscienti di cosa significasse.
Dalla scatola dei bottoni di mia nonna nacque credo il mio amore per l'estetica, giocavo solo con quelli quando andavamo a trovarla, una scatola di latta che conservo ancora, colma di bottoni gioiello di epoche precedenti, li mettevo in fila sul tavolo del suo soggiorno, attento a non disturbarle e molti di loro luccicavano colpiti dai raggi di sole che passavano dalla finestra. Lei era una sarta, ma ormai faceva più poche cose. Nella dispensa oltre alla scatola di bottoni aveva una raccolta completa rilegata in pelle della rivista Grand Hotel che potevo sfogliare!
Donne filiformi indossavano strani abiti, e parole incomprensibili per me credo li descrivessero, parole come tailleur, longuette e décolleté. Ricordo però che niente di simile era presente nell'armadio di mia madre come se fosse mia madre, ne per le strade e ritenni che dovevano essere proprio cose vecchie. Vecchie e magnifiche.
Col mio montgomery ruvido quanto il cappotto a losanghe marroni di mamma, e un altrettanto ispido berretto di lana calcato in testa, tornavamo a casa.
A ben pensarci, quegli anni non erano poi tanto diversi da oggi, insoddisfazione violenza e incapacità dello Stato di risolvere questioni economiche causavano le stesse ansietà di oggi, ma questo perché ancora non eravamo entrati nei magnifici anni ottanta. A casa ascoltavamo la filodiffusione da una radio rossa con soli tre rumorosi bottoni e il filo nero che spezzava il disegno a fiori, delle piastrelle della cucina.
Comunque, per un bambino come me, gli anni settanta erano solo numeri, ma la preoccupazione dei miei, i loro discorsi sulla necessità di “accontentarsi”, parlavano di tempi difficili anche per chi come mio padre pur avendo un “lavoro sicuro”, come statale nelle Ferrovie di Stato, non si schierava politicamente a destra o a sinistra, e Sonny and Cher, sicuramente li avrebbero considerati come matti d'oltreoceano. Con poche lire, forse cinquanta,tirate fuori da un portafoglio, però ci usciva il gelato col quale lento come sempre finivo per imbrattarmi i vestiti che spesso arrivavano smessi dai cugini più grandi, direttamente nel mio armadio.
Ma c'era anche l'estate negli anni settanta, e quando il grosso telefono nero suonava in casa e sentivo mia mamma proferire la parola “campeggio”, sapevo che era arrivata!
La mamma allora, tirava fuori le sue scarpe di tela con la zeppa di corda e i lacci alla caviglia e la borsa di maglia color mattone, i vestiti in acrilico che mi davano sempre la scossa e il costume da bagno con i pantaloncini scuri a vita alta (niente bikini) e il pezzo di sopra a fiori di un colore spento.
Papà controllava che la tela della tenda comprata a rate non fosse marcita nel garage e preparava l'immancabile “portapacchi” della sua 128 per la partenza.
C'era anche mio fratello come se fosse mio fratello che nel 73 aveva sei anni e portava ancora i sandali con gli occhietti mentre io quelli da frate! La televisione era ancora in bianco e nero, nera come la mia immaginazione e bianca come il cappellino alla marinara che mettevo al campeggio.
Inutile dire che la nostra tenda era sempre la più lontana dai bagni pubblici del campeggio, che facevamo con la zia Ada suo marito Fausto e i due loro figli. La Zia Ada si specializzò quegli anni nel lancio della pentola del sugo (cadde numerose volte negli sconnessi vialetti dei campeggi con la pentola in mano).
Nel 75 avrei cominciato la scuola, ovviamente pubblica.
In questo viaggio nel tempo, vi porterò con me tra l'armadio di mamma e il mio,tra la nostra vita ridicola e drammatica e il glorioso tempo dell'innovazione, fino ai tempi moderni. Perchè dovreste venire con me? Perché intanto tutti avete ficcanasato nell'armadio delle vostre, e in secondo luogo perché intendo raccontarvi il profondo divario che c'era tra la vita della gente comune e il mondo della moda, ma soprattutto perché quel trentennio portò vere novità. Il baule della moda, non era ancora colmo al punto da doverlo “rivisitare”, infatti, in quegli anni si “inventava” e creativo non era chi trovava un modo nuovo di guardare una cosa già vista, ma colui che dal nulla faceva venire alla luce ciò che non c'era.
Tra un racconto tragicomico e dettagli di stile autentico io con la collaborazione di Giorgio Schimmenti vi delizierò spero di immagini e parole. Il suo prezioso apporto in qualità di fashion editor e amico a questa piccola collana che terminerà con gli anni duemila, solleticherà, spero, il vostro gusto e magari spero vi aiuterà a recuperare oggetti di seduzione e cari ricordi, perché anche voi come noi possiate giungere alla conclusione che il Jersey di cotone sta alla “libertà” come io e mia madre stavamo alla definizione “famiglia naturale”, in modo cioè inversamente proporzionale a ciò che appariva
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