Quarta lezione di Marco Ferrini seminario di Villa Vrinda...

Da Graziano

Quarta lezione di Marco Ferrini seminario di Villa Vrindavana del 02 agosto 2010 (mattino).

Mi sono chiesto più volte come fosse possibile che le società tradizionali, solitamente imperniate su valori religiosi, potessero così facilmente convivere con crudeltà e degradazioni d’ogni genere.

Pensavo che senza l’affermazione della compassione come motivazione centrale nelle relazioni col mondo e con gli altri esseri, umani e non, non vi potesse essere un’etica accettabile. Vero è che in forme e nomi diversi, questa virtù è sempre stata enunciata a fondamento di ogni tradizione religiosa, anche se adattata alle categorie sociali e storiche in cui si era sviluppata, nella classicità poteva ascriversi sotto il titolo di “magnanimità”, nella cristianità come “carità”, per non parlare del ruolo che ha nel buddismo. Ma è stato un dialogo con Matsya Avatara che ha aperto un varco nella mia mente e mi ha spinto a ribaltare una visione stereotipata del mondo e della società, anche se certe cosiddette “intuizioni”, ne son certo, non nascono dal nulla e pure se appaiono come uno scatto rispetto a ciò che sembrava stabilmente acquisito, esse provengono da un lavorìo non sempre ben evidente sebbene reale.

Non riuscendo a distinguere quanto di ciò che conoscevo fosse il frutto di una mia personale riflessione e quanto invece il risultato di un’ideologia che permea capillarmente le forme di pensiero contemporaneo, e seppure arginata da una critica “politicamente corretta”, avevo anch’io metabolizzato nel più profondo delle mie convinzioni il fatto che la civiltà umana, pure tra alti e bassi, fosse in cammino verso quelle “magnifiche sorti e progressive”  che già il nostro Romanticismo nell’illustre figura di G. Leopardi si era curato di criticare duramente.

Il concetto che invece mi è stato passato dalla tradizione rappresentata da Marco Ferrini è, all’opposto, quello di un universo e di una civiltà minata dal principio dell’entropia.

Apparentemente non c’è niente di originale in quest’idea, nella nostra classicità era registrata come il passaggio dall’età dell’oro all’età del ferro, anche i movimenti ambientalisti contemporanei ci ricordano, attraverso l’immagine dell’uomo che taglia il ramo su cui è seduto e mille altre metafore, la decadenza nel rapporto uomo-natura. Intellettuali controcorrente come R. Guenon, ci hanno già descritto la civiltà greca, che a noi appare come “la civiltà” di riferimento, un mero pregiudizio, poiché “i Greci… hanno presentato ed esposto le cose che prendevano in prestito dagli altri (=India), modificandole in modo più o meno felice per adattarle alla loro mentalità, così dissimile da quella degli orientali, ed anzi già opposta sotto più di un riguardo”.

Non è quindi difficile accettare intellettualmente che così come l’universo stia perdendo l’energia che lo teneva unito in un punto infinitamente denso, anche la società umana, nonostante e malgrado il suo enorme sviluppo tecnico e di conoscenza scientifica, sia indirizzata verso un progressivo degrado.

Questa è una materia sulla quale esiste una quantità di letteratura fin da quando è nata la scrittura: ma è il passaggio dalla percezione razionale alla convinzione profonda che presenta una seria difficoltà per l’uomo e la donna contemporanei!

Noi siamo così dentro al mito tutto moderno del progresso-evoluzione, che tutto ciò che rimane immutabile nel tempo ci appare obsoleto, mentre ciò che cambia ci sembra adeguato: l’anima è l’immutabile per antonomasia, come il corpo lo è per ciò che è mutevole!

Certamente ci sono dei motivi storici se le cose sono andate così, uno per tutti l’oscurantismo di cui si sono fatte portatrici le tradizioni religiose, ma questa è questione che non possiamo affrontare ora.

Per tornare al nucleo centrale del secondo capitolo della Bhagavad Gita, ciò che ci interessa qui è il concetto di anima e dell’azione per dovere senza curarsi del risultato. Anche queste sono concezioni accettate come fondative di innumerevoli civiltà per millenni, perché oggi ci appaiono così difficili da attuare?

La mia idea è che concepirsi come anima ed agire con distacco, abbia sempre costituito una difficoltà per l’essere umano, in ogni epoca, indipendentemente dall’ideologia corrente. Certamente in una società nella quale a forza di “mettere da parte” la trascendenza perché l’esigenza era quella di indagare ciò che è percettibile ai sensi, e dove l’ascesi del dovere è guardata come un’autoflagellazione, ciò che viene approvata socialmente diventa la capacità di accumulare ricchezza materiale e prestigio sociale, in questa situazione realizzare non tanto la supremazia dell’anima sul corpo, ma persino la sua stessa esistenza, è diventato alquanto difficile ed improbabile.

Qui Krishna non è una divinità indiana che afferma l’essenza della spiritualità hindu, qui è “Dio che parlando al suo devoto spiega la perfezione dell’agire nella consapevolezza della vera natura dell’essere umano”. Non è una predica che porta al disinteresse tanto meno al disprezzo per il mondo, qui sono poste le fondazioni concettuali sulle quali, attraverso 700 shloka, Krishna trasmetterà sinteticamente ad Arjuna il modello di pensiero e d’azione che integra l’uomo col creato e col Creatore, portando al più alto vertice il senso di religione intesa come “religere”, rilegare ciò che è squadernato: “Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna” (Pd. XXXIII, 87).  

Krishna parte dall’anima (atman), da ciò che non si vede con gli occhi, ma senza la quale non ci sarebbero neanche gli occhi e da ciò a cui deve tendere l’essere umano nel suo agire, il distacco emotivo (abyasa).

Il resto della Bhagavad Gita è costruito su questi due pilastri.

Non c’è una volontà dogmatica nell’affermazione del trascendente e non c’è autoritarismo nell’indicare la disciplina per conseguirlo, dopo queste affermazioni iniziali in cui si indica il traguardo da conseguire, il tutto si svolgerà secondo un processo di rivelazione graduale, analitico, quasi come fosse una scienza positiva, l’unico strumento che Krishna richiede al suo discepolo di essere in possesso è un’adeguata predisposizione, la stessa che viene richiesta in ogni processo d’apprendimento: la volontà di conoscere nella libertà della scelta.

“Questa verità che ho annunciato per il tuo bene non deve mai essere rivelata a chi non pratica una vita ascetica, a chi non prova amorosa devozione, a chi non desidera ascoltare, a chi nutre avversione per Me.” BG XIIX, 67.  

Graziano Rinaldi

Appunti di Graziano Rinaldi direttamente dalla lezione di Matsya Avatara del mattino 02 agosto 2010


Il canto II della BG rappresenta un punto di riferimento per tutte le Sampradaya indiane, ovvero per tutti coloro che si riconoscono nel Sanatana dharma, essi vedono la BG come il testo di riferimento per eccellenza, quale che siano la successione dei maestri nelle sampradaya, le ritualità, ecc. la BG rappresenta l’autorevole comune denominatore di tutte le scuole hindu, sia personaliste che impersonaliste. La BG rappresenta il codice fondamentale per chi voglia comprendere a fondo, non per avere idee astratte su Dio, ma per ascoltare Dio che parla in prima persona.

Complessità e semplicità della BG, teorie complesse dottrine che richiederebbero dibattiti tra scuole di brahmani, nella BG vengono espresse in maniera sintetica, chi vuol capire in che cosa consiste la liberazione deve partire dalla BG come testo di sintesi della letteratura vedica, in nessun’altra parte il tutto è espresso in maniera così sintetica ed apprezzabile dal punto di vista estetico.

Siamo al secondo capitolo, dove gli aspetti contingenti hanno oscurato la visione di Arjuna, egli è troppo preso dalle percezioni sensoriale e dalle emozioni che ne derivano. Sanjaya, discepolo di Vyasa, ha il potere di vedere (non con gli occhi) cosa succede altrove e riporta persino gli stati d’animo dei combattenti a Dritarashtra, il re cieco, è la voce fuori campo. Sanjaya è una persona di grande valore e dopo la guerra lo ritroveremo a fianco di Dritarashtra nonostante il re abbia perduto tutto, anche l’onore.  E’ Sanjaya che fa notare al re la magnanimità dei Pandava i quali permetteranno al re sconfitto di rimanere al suo posto anche dopo la sconfitta, essi lo hanno perdonato. Dopo il celebre monologo del re cieco dove si manifesta l’attaccamento del re ai figli, sarà sempre Sanjaya a rispondere che non deve lamentarsi dei 100 figli morti, erano dei mascalzoni, la morte coglie anche personalità magnanime, la morte coglie santi, persone dedicate al bene degli altri, e tu ti lamenti di questi 100 mascalzoni che erano i tuoi figli! Pensa piuttosto ai valori della vita, questi non conoscono la morte, se ti lamenti della morte non hai compreso la lezione. E’ a quel punto che torna il fratellastro Vidura, che aveva abbandonato il palazzo quando si ordiva il complotto contro i Pandava, per risvegliare Dritarashtra esortandolo a dare un senso alla propria vita piuttosto che mangiare alla tavola di coloro che aveva tentato di assassinare, piuttosto che vivere di rimpianti e rimorsi.

Questo II capitolo è il riassunto della BG che a sua volta è il riassunto della shruti e della smriti.

L’undicesimo shloka è uno spartiacque. Fino a qui K. ha parlato pochissimo, A. invece non solo ha esposto il problema, ha anche dato il proprio giudizio e presa la sua decisione: non combatterà.

K., come un bravo terapeuta, lo ha incoraggiato ad esprimersi, ha fatto sì che quel che era più profondo in A. uscissero le emozioni che sottendono i pensieri. K. voleva capire la situazione emozionale di A. perché ha il suo piano per ribaltare tutto e lo cala magistralmente in tempo luogo e circostanza. Si sarà mai accorto prima di certe debolezza di A? La BG non ce lo dice, ma ci dice che al momento giusto bisogna intervenire.

L’interpretazione della tradizione di Marco Ferrini consiste nel considerare quel non preoccuparsi dei vivi e dei morti nel senso che il saggio non si turba per ciò che è immanente, perché mai ci fu un tempo in cui noi non esistevamo e mai ci sarà un tempo in cui non esisteremo, nessuno scomparirà dice K. e un saggio non si turba per questo cambiamento di forme, non è sufficiente la dottrina dunque, ma il dominio sull’emozioni, conquistare l’emozionalità. Dobbiamo accettare i cicli universali e quelli umani, non si deve essere distratto da ciò che ci è esterno, come il corpo, che è materia, in ogni essere c’è divinità, umanità e natura, queste tre componenti ci sono sempre ma non dobbiamo far confusione, quella scintilla divina è l’unica che sopravvive all’umanità e alla natura, siamo tutte anime spirituali in viaggio, solo gli animali hanno un percorso evolutivo incontrovertibile e solo nella forma umana può prendere una decisione responsabile della propria evoluzione o della propria involuzione. La persona saggia è non turbato (indifferente va inteso come “non turbato”) da ciò che avviene all’esterno e non desiste dal proprio scopo se non fosse piacevole, lo stolto corre dietro a ciò che è piacevole, il saggio si pone di fronte a ciò che è utile evolutivamente e non considera i disagi (tapas, ascesi, va pensato infatti come rigorosa coerenza piuttosto che come “penitenza”). La via spirituale è certamente affollata di disagi e ostacoli (del resto anche in altre circostanze ci saranno disagi e ostacoli), ma se li incontriamo sulla via della realizzazione spirituale, dobbiamo incontrarli con gioia perché una buona predisposizione ci permetterà una rispondenza interna per cui di fronte ad un ostacolo vedremo un’occasione speciale per superare i nostri limiti e attaccamenti, da ciò che ci dà piacere, da ciò che garantisce una nostra visione di comfort. Ciò che è di passaggio, che non è eterno, non deve turbare, colui che non si lascia turbare è già pronto ad andare oltre il ciclo nascite-morti. Gioia e dolore dobbiamo arrivare al punto che sono indifferenti, finché noi facciamo i conti e dipendiamo da ciò che succede all’esterno non siamo pronti e quindi non si può definire una persona saggia. Dobbiamo preoccuparci non dei corpi ma del reale stato evolutivo della persona! Occupiamoci di capire a quali parametri si riferiscono le persone, e per stabilire relazioni oneste non ci dobbiamo aspettare che gli altri siano onesti con noi, in questo caso costruiremo solo castelli di sabbia. K. sta insegnando la saggezza ad A. che ha si usato parole sagge, ma sono sconnesse.

K. ha un suo sistema pedagogico: prima rompe il ghiaccio e poi arriva la nave, c’è una progressione in cui K rivela ad A. come guardare al mondo alle relazioni. Insegna a distinguere ciò che è veramente reale, nel senso di eterno, perché ciò che non è eterno è destinato a dissolversi col tempo: quel che è non può non essere, quel che non è non può essere quel che non è non è reale, il parinama, tutto ciò che è composto di atomi fisici o mentali sta assieme per un po poi si dissalda, la somma totale degli elementi rimane (nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma, parinama), ma il purusha è sempre uguale a se stesso mentre la prakriti è in costante trasformazione, in questo senso non è reale. Il corpo distruttibile dell’indistruttibile crea un rapporto tra ciò che è temporale e ciò che è eterno. Nel 18° shloka K. dice ad A. di combattere, prende una posizione opposta a quella di A.. fin qui poteva essere bella filosofia, ma ora gli dice che deve combattere, allora A. pensa che dovrà ripensarci e lo fa durante i successivi 680 shloka, fino all’ultimo.

38° shloka:  fare il proprio dovere, agire senza attaccamento, stiamo tutti noi attraversando il campo di Kurukshetra, tutti noi siamo invitati a fare il nostro dovere, con distacco emotivo, agire per dovere secondo il ruolo, nel dharma, questa è la via della perfezione, richiede coraggio e non è la più comoda. Ogni giorno si combatte nella nostra psiche combattono le forse del bene e del male con trionfi e sconfitte alterne e vincerà quella dove noi investiamo di più. L’esempio scadente diventa nutrimento scadente per tutti glia altri. L’intero scopo della BG è di agire, di combattere.

Domande

Non tutti hanno la grazia di avere Krishna come amico, per chi non è così sostenuto?

E come riconoscere se la battaglia è quella giusta?

Bisogna combattere la battaglia che si presenta perché in caso contrario si ripresenterà sotto altre forme! Cogliamo quindi l’occasione di imparare la lezione: cosa c’è da imparare da quello che ci appare come un ostacolo? Quell’ostacolo ci permette di superare alcuni nostri limiti. E potrebbe essere da agire anche per i limiti degli altri, come modello comportamentale. Noi non abbiamo da agire solo per noi che già è cosa importante, ma ci sono gli altri che hanno un riflesso su di noi molto più importante di quello che immaginiamo.

L’uomo è un riflesso di Dio, tutti gli esseri sono riflessi di Dio, e andare daccordo con quei riflessi e favorire la soluzione ai problemi di quei riflessi è la risoluzione dei nostri problemi, è importante vedere che ognuno di noi sta cercando di fuggire alla sofferenza e di conquistare la felicità, per cui il favorire l’altro è favorire noi stessi e non c’è niente che piace di più a Dio e favorire Dio che è la somma di tutti noi insieme al creato: l’uno che diventa molteplice è la più alta conquista. Noi dobbiamo accettare le prove che l’intelligenza cosmica, che poi è la divina provvidenza, l’anima di tutte le creature, come prove da superare, vi sono perdite, abbandoni, cadute e quant’altro, che vanno interpretate come funzionali alla nostra evoluzione. Certo non va provocato deliberatamente, ma se si presenta come la guerra di Kurukshetra allora bisogna agire per dovere, non per piacere. Dovere e ordine sono spesso banditi nel pensiero debole, perché c’è un concetto di libertà molto bizzarro.

 Sulla solitudine e sul dharma

La vita a volte è legata alla solitudine altre volte no, la vita è anche moltitudine. La vita è compagnia, gioia, splendore, gioia della compagnia di persone gioiose. La solitudine riguarda certi momenti della vita, serve a raccogliersi per centrarsi e ritornare alla moltitudine umana e di tutte le creature per riportare la nostra centratura. La liberazione è un brulicare di vita in deliziosa compagnia. La solitudine è come il digiuno, ma c’è di meglio del digiuno anche se il digiuno è necessario di quando in quando. Dopo il digiuno c’è la festa, come dopo la solitudine c’è la moltitudine, noi siamo fatti per l’amore e l’amore è un rapporto con gli altri.

Si può non giudicare?

Dante dice che all’inferno ci sono quelli che hanno perso il ben dell’intelletto. L’intelletto è il discernimento, diventare privi di discernimento è morire. Ci sono tante mode new age che non hanno niente a che vedere con la saggezza eterna, sono mode, così come va di moda dire di accettarsi come siamo, noi invece dobbiamo al massimo tollerare certe disfunzioni della nostra personalità, ma non accettarle, bensì lavorarci sodo per risolvere. Se c’è un guasto va accertato non accettato, e poi va riparato. Le mode new age non sono la tradizione, ne hanno una spruzzatina.

Nessuno di noi può fare a meno di fare valutazioni, non emettere giudizi vuol dire altro: tutto ciò che arriviamo a conoscere e a valutare va prima di tutto verificato con persone molto attendibili (guru, shastra, sadu), che non sia impressione soggettiva o dettata da emozioni da elaborare, che non ci sia spirito di competitività, che non ci sia rancore, odio, vendetta, non si deve sentenziare come se noi fossimo la corte suprema, dobbiamo essere prudenti, ma guai a dismettere la facoltà tattva viveka (discernere nel dominio della realtà), il discernimento. Verificare quanto dominiamo la parola, la collera, la sete di onori, la lingua, la libertà dalle abitudini, lo stomaco e soprattutto quanto dipendiamo dai genitali (il mondo è dominato dalla libido, gli esseri sono condizionati soprattutto dalla libido). Si deve diventare signori nella nostra dimora interna, allora quando desidereremo, desidereremo da liberi e così per il pensiero, la parola e i giudizi. Guru, shastra (il retto comportamento non si può inventare, si trova negli shastra, ci sono dei codici, non è una questione soggettiva, la tradizione tramanda solo ciò che è valido, quello che non regge l’usura del tempo si perde, poi c’è la storia che presuppone un continuo aggiornamento del linguaggio che si crea in base alla visone del mondo, a quella che crediamo sia la realtà, ogni 25 anni bisognerebbe commentare i testi e nella sampradaya è detto da millenni) e sadu.  Il linguaggio non è immediatamente accessibile, vi sono accezioni forti e accezioni deboli che dipendono dal contesto, l’ermeneutica, l’esegetica, deve esser continuamente aggiornata.

Cultura vaisnava



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