Il cielo è pesante alla fine dell’autunno. Meglio così. Pioverà e finirà questo caldo fuori stagione. E poi improvvisamente farà inverno e di nuovo a natale si festeggerà con il sole. Ho finito prima di lavorare e ho pensato al vuoto di ore da riempire in qualche modo. Non c’era niente di meglio del mercatino. Ora passeggio per quanto mi è consentito dal flusso disordinato di donne dai fianchi morbidi e ondeggianti, le donne rotonde del mio quartiere inconsapevoli della loro mole. Schizzano da una parte e all’altra investendoti e calpestandoti con le rotelle dei carrelli della spesa, intente a parlare all’orecchio della comare. Due donne che sparlano diventano subito sorelle di sangue. A tutti i livelli. Le bancarelle sono tante e portano di tutto appeso ai bordi degli ombrelloni parapioggia o parasole e su tutto io vado a sbattere. Sono cose che non hanno vita lunga, dalla provenienza dubbia, che ricordano approssimativamente le ultime tendenze degli stilisti, quelli veri, in tessuti più fragili, con cuciture meno resistenti, con colori appena più scuri o più chiari dei pezzi più famosi delle sfilate. Cose di una stagione, di uno o due mesi, cose che non durano, di poco prezzo e tanto valore per chi non può permettersene altre. Sono le imitazioni. I falsi. I quasi veri.
L’ultima volta che ti ho visto hai preso delle caramelle da un cestino della cucina, avevi già la valigia nell’ingresso, non me ne hai offerta una. Ero lì per salutarti, così si fa. Non sapevo a che ora partivi, non ti ho chiesto se volevi essere accompagnato all’aeroporto. Non sapevo bene cosa dirti. E tu non mi hai detto le solite frasi che si dicono come “Ti chiamerò”. E perché avresti dovuto chiamarmi? Non sai che fartene della mia voce. Io non so che farmene di te. Sono stata contenta della tua partenza. Negli ultimi tempi non sapevo che dirti, non sapevo perché fare l’amore.
I capi sgargianti fraintendono le indicazioni degli stilisti, ne riprendono amplificandolo, stravolgendolo, un solo particolare che mi colpisce. Sulle bancarelle vedo scarpe dalle punte sparate, punte che si protendono troppo verso di me. Le taglierei quelle punte, ho bisogno di accorciare, ho bisogno di brevità, di tempi rapidi e puntiformi. Ho bisogno di leggerezza. Se non fosse per i colori, mi andrebbero benissimo questi vestiti esagerati nella loro pochezza perché fatti di stoffa sottile. E la frutta di stagione e il pesce subito marcio. Dura troppo quest’attesa, questa agonia, la perdita di senso. Appendo alle bancarelle i miei desideri, i miei dubbi perché uno strappo di vento se li porti con nessuno che li insegua. E le indecisioni e gli errori e la vigliaccheria di dirti non ti voglio più perché mi annoi. E gli alibi del non dire niente perché non ti devo cambiare io, magari m’interessassi tanto da darmi la voglia di combattere per te per creare un noi che ci fa paura. Dove sono i dialoghi nella nostra storia? Cosa ci siamo mai scambiati? Non riesci a darmi neanche una caramella. Il mercatino è il regno del rapido, del cambiamento, del tempo inutile che non lascia traccia. Il tempio della nostra storia quasi vera. Facciamo che adesso succede qualcosa, facciamo che siamo coinvolti in una rapina in banca e io e te ci stringiamo forte, io leggermente indietro, tu un braccio intorno alla vita pronto a dare la tua per proteggermi e magari pensando ad un piano di salvezza per tutti. Facciamo che tu sei Rhett Butler e io Rossella O’Hara e mi hai amato e ti sei stufato dei miei capricci. Facciamo i fidanzatini di Peynet, facciamo marito e moglie che indovinano la cose da dirsi e fanno sacrifici per i figli, facciamo che, nei film o non, i nostri sentimenti quelli sì sono veri e durano e ridiamo e piangiamo e ci graffiamo il cuore di sofferenza e di gioia.
Facciamo quelli veri. Una volta sola. Marisa Vinci