Mia madre insiste per regalarmi qualche camicia decente. Dice che le mie fanno schifo e ha ragione. Sono reperti di quando l’oviesse vendeva qualcosa di indossabile per un occidentale, ma il problema è la qualità del cotone: più vengono lavate e più si restringono. Nel giro di qualche anno si sono trasformate in quelle che indossavo alla prima comunione o, magari, la cresima. Le maniche arrivano a metà dell’avambraccio e fatico a farle rimanere dentro i pantaloni, anche se è da tempo che le porto fuori per mascherare il salvagente in vita.
Dice che non posso cercare lavoro conciato come un povero disgraziato, che bisogna avere rispetto per il prossimo, che non si può andare in giro con i pantaloni che pendono dal culo.
È da tutta una vita che pensa sia un ritardato a cui bisogna insegnare come si sta al mondo. Veramente me ne sono sempre fregato e, con la scusa di essere un “creativo”, parola che oggi mi mette addosso una certa vergogna, mi sono sempre vestito come capitava.
Ormai mi sono abituato al quel suo modo di essere estremamente sgradevole nel giudicare le persone, specialmente quelle che le sono più vicine. Siamo due entità che messe a contatto causano catastrofi terribili, come accendere un fiammifero mentre si fa benzina, o le colle bicomponenti. La mia nemesi, il più e il meno delle batterie, il diavolo e l’acqua santa.
La mia sopportazione si limita al vederla il meno possibile per evitare critiche, sguardi di compatimento e cattiverie gratuite verso me e la mia famiglia. Cerco di essere un punto di riferimento lontano per una persona che, alla soglia degli ottantanni, non ha ancora perso la convinzione di essere un essere perfetto e imperfettibile, e sopporto pensando che sono l’unico superstite di tutta la sua famiglia. Spero, da ateo fervente, che almeno serva a mantenere pulita la mia coscienza e non a prenotarmi un posto in un mondo futuro a cui non credo e mai crederò.
Per questo mi infastidisce dire che questa volta ha ragione: non ho praticamente nessun capo d’abbigliamento decente che possa farmi passare per uno per bene in questo mondo ipocrita. E mi umilia sapere che in questo momento non ho la possibilità di rinnovare il mio scarnissimo guardaroba, e quindi dover accettare la sua offerta. Dice che in corso Buenos Aires c’è un negozio che vende camicie di taglio sartoriale, e che con 99 euro te ne danno quattro.
Ci vado, ma non è uno shopping che mi rallegra, anzi, mi sembra quasi di dover comprare il vestito buono da portare nella bara.
La commessa è sui cinquanta, procace, e parla con un vago accento francese molto glamour. Si complimenta in inglese per la camicia con le faccine dei beatles di mio figlio. Io invece non so nemmeno la mia misura di collo. Ci pensa lei: 44 e mezzo. “Minchia” mi viene da dire, ma poi ripiego su un più antiquato: “Cavoli!”.
Ne scelgo una bianca (a quanto si dice un passe par tout equivalente al tubino nero), una vinaccia molto scuro leggermente cangiante e un paio a quadrettini di diversa tonalità. Ero tentato anche dall’azzurro a tinta unita, ma faceva troppo autista di banca.
Che schifo. Mi sento di merda, nauseato come una puttana ai primi clienti. Uno che, dopo una trent’anni di lavoro, deve farsi regalare quattro camicie da sua madre. Un’umiliazione che proprio non mi va giù.
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