Queen Anne's Resurrection - Viaggio V Gli Abissi e il Kraken- 2° parte

Creato il 15 dicembre 2011 da Alessandro Manzetti @amanzetti

Introduzionedi Alessandro Manzetti
Seconda parte del Viaggio V della Queen Anne's Resurrection, a tema Gli Abissi e Il Kraken. Dopo la prima parte, dedicata in gran parte al tema Abissi, con i racconti inediti di Allyson Bird, Danilo Arona, Scott Nicholson e Alberto Custerlina, insieme alla splendida illustrazione Kraken Revenge di Daniele Serra, questa volta i racconti di Paolo Di Orazio, Tim Waggoner e Daniele Bonfanti sono tutti dedicati al tema Kraken, tre diverse interpretazioni della Bestia del Mare che ci coinvolgeranno in pieno, stringendoci tra i tentacoli.
Gli autori hanno materializzato il Kraken anche lontano dal mare e dalle consuete profondità abissali, interpretando con originalità il tema proposto. Dall'ambientazione krakeniana classica immaginata da Paolo Di Orazio, che ci propone un racconto immediato, avvincente, splatter quanto basta, costruito da un punto di vista diverso e trasversale, si passa a scenari che trasgrediscono senza timore i saldi canoni marini del nostro immaginario: i Kraken immaginati da Tim Waggoner e Daniele Bonfanti ci fanno comprendere che la Bestia del mare in fondo può vivere ovunque, in posti impensabili, persino nella nostra psiche. Racconti che ci fanno rabbrividire, non ci sentiremo più davvero al sicuro, neanche lontano dall'oceano e dal suo nero stomaco. Non so se sarà il caso di ringraziare questi autori, che involontariamente hanno moltiplicato le forze e la portata di queste terribili creature, dagli occhi grandi come piatti, privi di qualsiasi emozione terrestre.
Racconti che disorientano, che scavano una consapevolezza difficile da digerire:  il Kraken è anche dietro l'angolo, pronto a trascinarci nelle profondità più oscure e impossibili. Vi auguro buon viaggio in compagnia di queste storie in bilico tra la realtà e gli abnormi risultati del ventre del nostro pianeta. Non fatevi portare sotto, resistete, se ci tenete a rivedere il cielo.



Quella notte, quella notte tra le nebbiedi Paolo Di Orazio
Il capitano della Queen Anne aveva deciso.Sulla sua faccia di cuoio, la luce della luna pietrificava e sigillava la determinazione a proseguire contro il banco di nebbia sotto cui andava scivolando il mare piatto e la nostra nave. Nessuno avrebbe potuto fargli cambiare idea, nemmeno Dio. Peter il mozzo, corse al timone, trafelato. Tutto l'equipaggio temeva lo schianto contro una barriera nascosta, e tantomeno un ragazzo appena assoldato senza troppa esperienza desiderava conoscere il perché di quella follia. «Comandante», disse. «Come fate a sapere che dentro la nebbia troveremo il nemico? Siamo partiti solo stamattina e già siamo sotto attacco?». Il capitano Horleck spostò lo sguardo a sinistra. Per un solo istante. Di fronte a sé, a pochi palmi dalla prua, il muro informe della nebbia, brillante come madreperla sotto la luna piena. «Tra poco sapremo tutto, anche tu».Non avevo dubbi su quel che pensava Horleck, poiché anche io avevo già assistito alla prova della nebbia di cui ci aveva parlato chiaramente. Ero su un'altra nave. Dove morirono tutti. Sono cose che si scoprono accidentalmente ma che poi devi custodire in segreto, se vuoi lavorare su altre imbarcazioni da guerra o mercantili. Avrei potuto chiedere a Horleck come mai fosse sopravvissuto, avrei dovuto obbligarlo a girare il timone ed evitare di inoltrarci nella nebbia. Ma io ero solo un manutentore delle sartie. Il comandante era lui e i comandanti non vanno osteggiati o sfidati. Horleck aveva detto che quella notte la nebbia ci avrebbe portato dai nemici. Era una prova e una cura, aveva detto ridendo grassamente. La nostra nave scivolava sull'acqua senza vento, senza remi. Eravamo in due a conoscere la forza che attraeva la Queen Anne dentro le nebbie. Ognuno della ciurma era al proprio posto, in silenzio. Potevamo quasi udire lo scricchiolio della pelle del volto di Horleck, che si contraeva in profonda concentrazione sui lineamenti cotti da anni di mare e sole. Eravamo in due, a sapere, ma forse qualcuno di più. Con una differenza: io non avevo paura.Il primo a scoppiare fu proprio il ragazzino, il mozzo. Le nebbie avvolsero in silenzio il veliero, inghiottendo tutto. E offuscando la vista a ognuno della ciurma. Dedussi che il capitano Horleck restò al timone, in ascolto, e in attesa. Nemmeno lui aveva paura. E quasi potevo sentire il suo pensiero che vorticava come un cane che si insegue la coda. «Questione di minuti. Pochi minuti» pensava, e pensava.Una volta immersi nelle nebbie, iniziarono le urla.Vento assente, mare fermo. I legni della Queen Anne non avevano mai trovato tanta quiete. Le vele non subivano lo strappo dei venti. L'albero maestro riposava dopo anni di tensioni e torsioni. I remi erano ritirati. Il mare sotto di noi sembrava scomparso, così come il cielo. Non eravamo nel cuore della nebbia, noi eravamo il cuore.

Il capitano Herlock non muoveva un muscolo, non pronunciava una sillaba, mentre nella nebbia il corpo di alcuni membri della ciurma esplodeva uno dopo l'altro. Era come se questi poveri diavoli venissero tirati da ogni direzione da cavalli invisibili, inondando il ponte di sangue grasso e interiora. Si rompevano come gomene comsumate. L'aspetto che più attirava la mia attenzione in questo massacro straziante consisteva nell'agonia reiterata. Non tutto l'equipaggio subì la lacerante sorte, ma undici uomini su ventitré; tra cui Daggar, il cuoco, e non fu proprio una fortuna per chi sarebbe sopravvissuto. I loro corpi vennero squarciati con furia titanica. Alcuni pezzi, volando in aria, tra le volute della nebbia, sbatterono tra loro con suoni mollicci, per andare a rotolare sul pontile. I monconi da cui sporgevano omeri o tibie ticchettarono sordamente sulle assi della nave, nel rotolare a terra. Vidi ciascuna delle parti in cui furono smembrati i corpi dei naviganti, illuminate con il desolante chiarore delle nebbie, rifrazione infinita della luna piena tra le innumerevoli goccioline del banco muto in cui eravamo confinati. Ogni pezzo era una strofa umana della sofferenza e del dolore. I membri dell'equipaggio che non perirono subito in quel modo brutale uggiolavano come cani disperati, tormentati dalla morte, dalla paura; non vedevano cosa accadeva tra le nebbie, ma sapevano che accanto a loro, qualcuno veniva strappato in due, quattro, dodici parti contemporaneamente. I muscoli del loro corpo erano scossi da spasmi violenti perché sentivano che di lì a poco sarebbe toccato a loro. L'umore del banco lattiginoso fradiciava i vestiti e i capelli, mentre il freddo e l'umidità potenziavano l'olfatto, scovolando le froge del naso con il tanfo caldo del sangue.Le nebbie si diradarono, o meglio, la Queen Anne uscì dalla torba nebbiosa, ancora in abbrivo.La carena tagliava il mare con leggiadra dolcezza. Le acque placide si spostavano senza irridere lo scafo con la schiuma. Il buio degli abissi mi consolava. E lassù, impassibile al timone, il capitano Horleck al timone si accendeva un sigaro cubano. L'aria pulita della notte gli dava fastidio. Quando vidi che la luna piena infuocava di luce il nostro veliero, provai un senso di gratitudine a me piuttosto raro: non c'era dettaglio della nave che non fosse ricoperto di sangue scarlatto. Ciò che restava degli uomini fatti a pezzi era irriconoscibile. Il grosso dei loro corpi sparito.Il resto della ciurma che ancora possedeva un'integrità cominciò a muoversi, spalando il fluido sanguigno e caldo con secchi e gottazze. La bassa pressione della notte stellata fece sì che dalla nave si sollevassero vapori di quelle vite a brandelli. E dalla prua, lo spettacolo era a dir poco esaltante.Guardai a poppa. Il banco di nebbia si allontanava sempre più, isola del nulla, cervello a pelo d'acqua di sogni arcani.Horleck parlò a me, senza degnarsi di pronunciare il mio nome.«Li ha presi tutti».«Sì, capitano. Aveva probabilmente molta fame», dissi a babordo.«Non ha preso te. E soprattutto sai. Congratulazioni» fece Horleck.«Mi inchino a voi, capitano».«Da quanto tempo sei morto?» mi chiese il capitano mentre gli versai del cognac caldo in una tazza.«Da ventisei anni» confessai. «Il pugnale di un grassatore».«Io da trentotto. Quella maledetta bestia degli abissi è precisa come un chirurgo» disse Horleck bevendo lo spirito.«Non mangerebbe mai carne morta, capitano. L'ho visto fare su altre navi. Coi tentacoli prende, strappa e mangia». Mi guardò per un istante con soddisfazione. La luna non scintillò nei suoi occhi opachi come vetro corroso.«I morti devono restare tra i morti, amico. E finché sarò al timone di questa nave, o di un'altra ancora, se c'è un solo vivo a bordo non aspetto un giorno per darlo in pasto agli abissi», sentenziò Horleck.«Giusto, capitano» confermai, in tutta franchezza.«I vivi,» sospirò aria fetida dai polmoni. «I vivi portano solo noiose sciagure. E io odio annoiarmi.

foto di Cinzia Volpe


Profilo dell' autore
Paolo Di Orazio (Roma, 1966), redattore free lance esordisce nel 1989 con la raccolta splatter-noir Primi Delitti (Acme), supplemento alla testata Splatter di cui è coordinatore e avatar, libro best seller incriminato da un'interrogazione parlamentare per “istigazione a delinquere”. Dal fumetto alla scrittura ha macinato racconti, romanzi e storie horror per Granata Press, Addictions, Radio Rai, Urania, «Heavy Metal», «Cattivik», Clair de Lune, Beccogiallo, Nicola Pesce editore. Nel 2011 torna in libreria con il romanzo gore-metal Vloody Mary (Coniglio editore).




Terrore in superficiedi Tim WaggonerTraduzione di Alessandro Manzetti
Sei seduto a un tavolo del tuo bar preferito, sul lato della finestra. Sei qui - guardi il cellulare per controllare l’ora – da quasi tre ore. Hai preso tre tazze di caffè (piene a metà di caffè, con due cucchiaini di zucchero, tripla panna) e due focaccine (una alla cannella, una al mirtillo). Hai portato un libro, l'ultimo volume della tua serie poliziesca preferita, ma si trova sul tavolo, chiuso.Guardi fuori dalla finestra, come hai fatto nelle ultime due ore e mezza. Da quando è iniziato a piovere. Prima di uscire da casa avevi controllato le previsioni del tempo su Internet, avevano annunciato una probabilità di pioggia pari al venti per cento. Una possibilità piuttosto remota, hai pensato, uscire non poteva essere molto rischioso. Ma per qualche motivo quel venti per cento di possibilità era diventato improvvisamente il cento per cento, la pioggia si era scatenata in un vero e proprio acquazzone. Ora sei in trappola. Non è la pioggia in se stessa che temi. Ti preoccupa l'acqua che ricopre il parcheggio. Così abbondante che non riesci più a vedere l'asfalto. Sembra la superficie di una piscina, uno stagno, un lago, un oceano. Le gocce di pioggia colpiscono con tale forza la superficie da provocare una costante eruzione. Pensi che potrebbe esserci qualsiasi cosa sotto l'acqua. Qualsiasi cosa.

"Ti sei mai fermato a guardare una pozzanghera di pioggia? Voglio dire, a guardarla davvero? "Hai quattro anni e stai camminando sul marciapiede insieme con tuo nonno. È un uomo vecchio, più vecchio del Tempo stesso a quanto pare, magro e ossuto, con una pelle d’elefante e ciuffi di sottili capelli bianchi che punteggiano il cuoio capelluto costellato di macchie brune. Cammina lentamente, così è perfetto per le tue gambe tanto corte. Non ti è necessario correre per stargli dietro.Il nonno ti porterà al parco giochi del centro ricreativo, vicino a dove abiti. I tuoi genitori sono entrambi al lavoro, oggi si occuperà lui di te. Ha piovuto tutta la notte e ci sono pozzanghere sul marciapiede, nei rigagnoli e sulla strada. Non hai mai dato loro molto peso, se non per evitare di calpestarle. Gli altri bambini si divertono a saltare nelle pozzanghere, ma tu no. Non ti piace avere le scarpe e calzini bagnati, sentire il tessuto fradicio sulla pelle - spesso, freddo, pesante.Tuo nonno si è accovacciato accanto a una pozzanghera, le articolazioni delle sue ginocchia generano un suono morbido e distorto. Ti fa cenno di unirsi a lui, ti avvicini, anche se cerchi di stare lontano dal bordo della pozzanghera, dove si trova lui."La cosa meravigliosa di un corpo d'acqua è che non si può dire quanto sia profonda osservando solo la sua superficie." Sorridendo. "A meno che non sia acqua chiara come il cristallo. E questa non lo è. "Guardi la pozzanghera. Non è chiara, per niente. E 'nera e liscia come il vetro."Se ci metti il dito dentro, scopriresti che è poco profonda, nella maggior parte dei casi puoi dire a malapena che ci sia davvero dell’acqua. Ma a volte. . . "Il nonno alza la mano e stende il dito indice verso il cielo, poi - con movimenti più precisi e deliberati, come farebbe un mago sul palcoscenico - lo ruota verso il basso per poi spostarlo verso la pozzanghera.Trattieni il respiro mentre il dito scende e con la punta tocca dolcemente la superficie, senza creare increspature nell’acqua. Poi si ferma, pensi che sia finita, ma ti stupisce che lui continui a spingere il dito nella pozzanghera, prima un pezzo, poi un secondo, per immergerlo fino alla nocca. Penserai a questo momento molte volte per tutta la tua vita, da adulto ti dirai che era solo un trucco, che il nonno aveva semplicemente piegato il dito mentre abbassava la mano, creando l'illusione che il dito potesse affondare in una pozzanghera più profonda rispetto al livello del marciapiede. Avevi solo quattro anni, era abbastanza facile ingannarti. Ma in quel momento sembra così reale, immagini che la mano del nonno riesca ad affondare fino in fondo alla pozzanghera, per poi proseguire immergendo il gomito e poi la spalla. La pozzanghera non è poi così grande, ma tu sei magro, con vita, fianchi e spalle strette. Ti chiedi se entrando nella pozzanghera affonderesti, e se sì, quanto in profondità potresti arrivare.Un grido di spavento esce improvsamente dalla bocca del nonno, che tira via la mano dalla pozzanghera. Gocce d’acqua schizzano sul tuo viso, vorresti gridare, ma tutto ciò che la tua gola riesce a produrre è un piccolo suono miagolante.Il nonno sorride. "Qualcosa mi ha morso. Probabilmente un pesciolino o qualcosa del genere. "Osserva le tue reazioni, aspetta. Sei il suo unico pubblico, vuole sapere se ti sei goduto lo spettacolo. Fai del tuo meglio per fingere un sorriso."Andiamo, tesoro. Il parco giochi ci attende"Si alza sbuffando per lo sforzo, ti tende la mano - quella con cui aveva toccato la pozzanghera – per lasciartela afferrare. Esiti, ma poi ti alzi e prendi la sua mano, consentendogli di condurti lontano dalla pozzanghera. Gli sei grato per questo, ma non puoi fare a meno di pensare alle sue parole.Probabilmente un pesciolino. . .
. . . o qualcosa del genere.



* * * * *

 

Quella sera tua madre ti prepara i pop-corn, insieme ai tuoi genitori ti siedi a guardare la versione della Disney di "Ventimila leghe sotto i mari". È un film un po’ lento, la tua attenzione vaga ovunque e sfugge. Non ti piace l'idea che gran parte del film sia ambientato sott'acqua. Ad un certo punto l'equipaggio del Nautilus si trova a combattere contro una specie di mostro - un enorme bestia del mare con lunghi tentacoli, occhi grandi come piatti che sembrano non avere alcuna intelligenza, una bocca simile al becco aguzzo di un pappagallo.
Quella notte sogni tentacoli che si nascondono in una infinita distesa d’acqua, allungandosi verso l'alto, sempre più, fino a raggiungerti. E' la prima volta che fai questo sogno. Ma, sfortunatamente, non sarà l’ultima.* * * * *

La pioggia sembra non arrestarsi mai. Avresti voluto parcheggiare vicino all'ingresso del bar, ma quando sei arrivato non c’era posto, sei stato costretto a parcheggiare sul lato opposto dell’edificio, se ora vuoi riprendere la tua auto, dovrai fare una corsa su un corpo d'acqua che potrebbe essere poco profondo come un quarto di pollice, oppure indicibili braccia di profondità. E qualsiasi cosa potrebbe nuotare in quelle profondità, in attesa di qualcuno abbastanza stupido da uscire.

Tu sai che tutto questo è ridicolo, che la tua paura è una fissazione che rasenta la psicosi, ti sforzi di calmarti respirando profondamente, finchè il tuo polso rallenta. Controlli di nuovo l'orario. Hai posti dove andare, cose da fare, cose importanti. Non puoi permetterti di passare qui tutto il pomeriggio per paura dell'acqua, perdio!
Ci vogliono altri cinque minuti per trovare il coraggio di alzarti. Butti via la tazza di caffè vuota e cammini verso l'uscita. Lasci il tuo romanzo poliziesco sul tavolo, dimenticato. Quando raggiungi la porta, rimani immobile per un momento, con la mano sulla barra di metallo. Puoi farcela, ti dici. Se qualcuno noterà la tua corsa potrà facilmente pensare che stai cercando di evitare di bagnarti.
Prendi un altro profondo respiro, ti decidi e apri la porta.
Il vento ti colpisce subito, portando con sé un freddo respiro di nebbia che ricopre il tuo volto. Rabbrividisci, ma riesci a muovere il primo passo per poi iniziare a correre attraverso il parcheggio verso la tua auto. Non hai portato un ombrello, non ne hai mai avuto uno. Non esci mai quando piove. Tranne oggi, purtroppoLa pioggia ti colpisce come schegge di ghiaccio, il suono che penetra la terra ti accerchia. Riesci a sentire le centinaia, migliaia di vibrazioni prodotte dai singoli impatti, ma non sono abbastanza per attutire il rumore del tuo cuore che batte. Mentre corri i tuoi piedi alzano spruzzi d'acqua, in un primo momento senti l’asfalto abbastanza solido sotto di te, a metà strada il livello dell'acqua sale e il terreno sembra diventato fango. Le scarpe e i calzini sono bagnati, l'acqua è ormai salita oltre le caviglie. O forse, trafitto da una freccia di panico, pensi di cominciare ad affondare.
La cosa meravigliosa di un corpo d’acqua è che non si può mai dire quanto sia profonda, osservandone la superficie.
Le parole del nonno echeggiano nella tua mente, ma la pioggia cade così dannatamente forte che puoi a malapena sentirle.
Due terzi della strada..
La tua auto è una forma grigia seminascosta da un muro grondante di pioggia. Concentri tutta la tua attenzione su di essa, dicendoti di andare avanti, solo di andare avanti, non importa altro.
Senti l’acqua fino ai polpacci ora, non stai correndo abbastanza per riuscire ad arrancare di qualche metro avanti. Eppure tieni lo sguardo fisso sulla tua auto, anche se è difficile distinguerla con tutta quell'acqua che cade continuamente sulla faccia e negli occhi. Credi di vedere qualcosa che si muove intorno a te, ti rispondi che è un'illusione causata dalla pioggia negli occhi, ma guardi comunque, non puoi smettere anche se sai che dovresti.Vedi una sottile forma ondulata snodarsi verso di te, scura e liscia, dalla carne gommosa ricoperta da una patina oleosa. Sulla parte inferiore gruppi di ventose come piccole bocche circolari si aprono estendendosi al massimo mentre il tentacolo si allunga sempre più vicino, fremente e eccitato dalla fame. Subito affiancato da un secondo, poi da un terzo. Altri tentacoli appaiono, troppi per contarli, poi tutti ti raggiungono.
E' il momento per ritrovare quel grido che era rimasto in gola tanti anni fa, quando eri bambino, ora puoi dargli la voce.

* * * * *Torni nel bar, sei davanti alla liscia superficie dello specchio del bagno. I tuoi vestiti sono bagnati, i capelli fradici e in disordine, le tue lacrime fanno in modo che niente sia davvero asciutto.
Non sei riuscito ad attraversare un parcheggio sotto la pioggia, qualcosa che chiunque potrebbe fare facilmente. Ti sei voltato e sei scappato via quando hai visto i tentacoli, sei rientrato correndo attraverso la porta d’ingresso con  tale panico che tutti hanno alzato gli occhi, stupiti. Sei andato in bagno chiudendoti dentro, con la vaga idea di cercare di asciugarti in qualche modo. Ma la verità, è che volevi allontanarsi dalla pioggia, mettere alcune pareti in più tra te, lei, o loro. . .  qualunque cosa fossero.
Guardi il tuo riflesso.
"Sei patetico", ti dici.
La superficie dello specchio si increspa come l'acqua e poi, mentre il vetro si trasforma sempre più, la tua immagine cambia. Nello specchio sei nudo, la tua pelle è gommosa, scura e lucente. I tuoi occhi sono grandi, impassibili, privi di emozioni. Al posto dei capelli, dalla testa si estende un nido di tentacoli che si muovono lentamente avanti e indietro, come se fossero agitati da una corrente sottomarina. La tua bocca è un adunco becco di pappagallo, quando si apre per parlare il suono che ne esce è un acuto ululato, ma tu riesci comunque a comprenderlo.
Sei stanco di questo. Della paura. Ti posso aiutare. Non dovrai più avere paura. Tutto quello che devi fare è prendere la mia mano.
Un tentacolo si stende e esce dallo specchio, con all’estremità cinque viticci di piccole dimensioni. Guizzano come una covata di cuccioli di serpente e mentre quello che stai vedendo dovrebbe farti mettere in seria discussione la tua sanità mentale, tutto sembra invece, in qualche modo, naturale. Quasi normale. Ti sorprendi di cercare di toccare quei tentacoli, allungandoti. Ma come la punta delle tue dita tremanti sfiora i viticci, tiri indietro la mano, incerto.
Questo è quanto posso mostrarti. Posso guidarti verso le profondità più di quanto tu abbia mai immaginato fosse possibile. Così in profondità che potremo lasciarci indietro tutto il resto. Preoccupazione, dolore, tristezza, paura. . . Andremo tanto in profondità che non ci sarà più nulla, oltre noi e il vasto Nulla senza fine. Troverai finalmente la pace.
Nuove lacrime cadono dagli occhi. Lacrime di terrore, certo, ma anche di speranza, oltre che di gioia.
Ancora tremando, afferri l’altra tua mano, le dita di viticci si avvolgono strette intorno al tuo corpo e iniziano a spingerti avanti, dentro e giù, giù, giù. . .
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Profilo dell'autoreTim Waggoner ha scritto numerosi romanzi, due raccolte di racconti  e ha pubblicato oltre cento racconti, , novelle e saggi  nel genere horror, fantasy e thriller. Si è laureato alla Wright State University nel 1989. Ha lavorato come editor e reporter. Attualmente insegna scrittura creativa alla Sinclair Community College in Dayton, Ohio, e cura il corso di Writing Popular Fiction alla Seton Hill University. Alcuni dei suoi romanzi: Dying for It (2001) The Harmony Society (2003) Dark Ages: Gangrel. (2004) Nekropolis (2004) Defender: Hyperswarm (2004) Like Death (2005) Exalted: A Shadow Over Heaven's Eye (2005) A Nightmare on Elm Street: Protege (2005) Pandora Drive (2006) Darkness Wakes (2006) Cross County (2008) Last of the Lycans (2010). In uscita a febbraio 2012 per Delirium Books  il suo nuovo romanzo The Men Upstairs (cover realizzata da Daniele Serra)  Web Site




Congelato nel buiodi Daniele Bonfanti
Quando cala il silenzio siamo in parete da due ore. Io sto assicurando dall’alto Gigi su un passaggio impegnativo, gli appigli pieni di ghiaccio su una torre di rocce brune sovrapposte, David attende in sosta più in basso. Per un secondo mi gira la testa e mi si vela lo sguardo. La sensazione d’assenza, assenza allarmante, è più veloce di ogni pensiero. Sollevo il capo di scatto, mi volto, annuso l’aria secca. Non so nemmeno io perché, finché non sento una carezza calda da sudovest. Il vento. Ha smesso di scivolare giù gelido dalle cime, di fronte a noi; una pausa; e adesso mi coglie da valle. Non va bene. E non vanno bene quelle nubi nere che un minuto fa non c’erano, e stanno salendo per venirci a prendere.Sembrano passati giorni da quando – una manciata di ore fa – camminavamo sorvegliati da spettri silenziosi che nella notte occupavano il cielo. La mole tricefala del Pizzo Palù, dov’eravamo diretti, si profilava a poco a poco nelle velature rosa e arancio dell’alba, regale, al centro del circo del Pers, accanto allo slancio del Bernina e alle spalle larghe del Morteratsch, osservata dagli eleganti merletti di neve del Bellavista e protetto da Fortezza e Crest’Aguzza. Lo scricchiolio della neve ghiacciata sotto i ramponi, prima piccole onde congelate come di un lago rotto da una brezza lieve, poi più ripido e più spaccato da crepacci mentre lo sperone Kuffner a mano a mano appariva più grande, sulla vasta parete Nord.Seracchi giganteschi e gorgoglianti, grandi come palazzi e castelli; l’anima verdastra che sovente ne emergeva dalle pareti bianche. Odore di neve ghiacciata nell’aria leggera. Voragini spalancate di cui non si scorgeva il fondo, attraverso le quali si apriva la nostra traccia – eravamo i primi questa mattina – sconvolte all’interno da architetture folli di colonne di ghiaccio, budelli, stalattiti sottili e forme fantasmagoriche intrecciate verso un abisso di tenebra. Poi lo sperone. Il sole che è giusto arrivato a scaldare gli gneiss delle rocce sollevate a sovrastarci: un costone di blocchi enormi come incastrati gli uni negli altri, emergente dalla cortina titanica e candida, oramai splendente, parallelo allo sperone Bumiller – il più poderoso, centrale – e al più occidentale, tagliente e nevoso sperone Zippert, a delineare la simmetria tripartita e perfetta di questa montagna leggendaria.Sopra di noi scorgevamo perdersi verso l’alto lo sperone, spina dorsale del dio tricefalo, sporgente e stretto a formare un rilievo marcato. Un pilastro sorretto da immani zampe di ghiaccio. Impossibile individuare, cinquecento metri più in alto fatti di intrusioni sempre più fitte e tenaci di ghiaccio, l’elegante crestina di neve che porta in vetta, a poco meno di quattromila metri.Ricordo simili a un sogno le ore di salita: la crepaccia terminale superata con un piccolo salto, profondissima e buia, lo stridio dei ramponi sulle pietre dell’attacco. Rocce poco solide all’inizio, molte soltanto poggiate le une sulle altre, e pesanti quintali o tonnellate – «Hanno perso la presa di un tempo a causa del continuo ritirarsi dei ghiacciai», dicevo a Gigi, e a David, che annuivano cupi. «Brutta storia, eh. Di questo passo ascensioni come questa non si potranno più fare, se continua tutto a sciogliersi così». E David che mi rispondeva di essere rimasto sconvolto di fronte alle decine di metri perse in pochi anni dalla Vedretta del Ventina, in una recente salita al Cassandra. Annuendo, Gigi con una smorfia aggiungeva: «David, avresti dovuto vedere sulla normale al Disgrazia il mese scorso, vero Daniele? Uno sfasciume unico. Brutta storia davvero, si stanno sciogliendo tutti a una velocità pazzesca…» Le condizioni severe: neve ghiacciata sul fianco destro, appigli e appoggi da ripulire e che ci fanno bruciare le dita. Neve troppo scarsa per ricalzare i ramponi, troppa per non essere d’intralcio. L’entusiasmo e la gioia animale e insieme la soddisfazione intima e spirituale della scalata lungo questo mosaico di poliedri bruni, via via per incastri, appigli e appoggi, opposizione, passaggi di neve, mai estremi, ma con uno zaino sulle spalle e scarponi ai piedi e a quota 3500 è una grande avventura.

Le risate alle brevissime soste, giusto per bere un sorso dopo essersi massaggiati il collo per non beccarsi pugnalate gelate nella trachea, e azzannare un quadratino di cioccolato nero. Battute sulla traduzione stregonesca in cui è impegnato Gigi, sul mio nuovo romanzo pieno di mostri e esplosioni, sulla novella appena uscita di David della cui trama non si capisce nulla.Ma ricordo soprattutto il cielo, scalato dal sole con lentezza come noi scalavamo la pietra e la neve dura, il cielo contro la nostra via che pareva condurci dentro quella spianata di un azzurro compatto e lacerante per gli occhi. Ricordo soprattutto la luce congelata sull’abisso. E adesso, adesso il cielo ha cambiato volto.Già il rifugio Diavolezza è scomparso, avvolto da uno sbuffo nerastro. Il bacino, laggiù così in basso, in fondo alla parete, è una fotografia in bianco e nero – le pareti sono scure e le loro ombre lunghe e spigolose sono sfumate via dal ghiacciaio.Sento odore di zolfo permeare l’aria sottile.Quando Gigi mi raggiunge in sosta, urliamo subito a David di non salire. Di assicurarsi e di attenderci. È bastato uno scambio di sguardi. E poi le corde doppie che si susseguono veloci, movimenti sicuri su cordini, Machard e moschettoni, lasciando perdere freni superflui per guadagnare secondi preziosissimi mentre il cielo si fa nero e basso, siamo dentro il cielo e il cielo è vorticante, mentre scendiamo rapidi attorno a noi l’aria crepita, mi scorrono addosso scariche azzurrine. Una palla azzurra che scivola verso l’alto mi passa a mezzo metro di distanza sollevandomi i capelli sotto il casco, alla fine di una doppia. Mi sento carezzare sotto i vestiti da mani dalle unghie lunghe, dal basso verso l’alto. Mi accascio contro la pietra stringendo forte con le dita intorpidite e mi pare quasi di sentirla vibrare.Il cielo, tutto il cielo, ringhia.Tocchiamo il ghiacciaio alla base della parete, saltata la terminale, travolti da una slavina staccatasi molto più in alto, che ci schiaccia al suolo. Ci rialziamo barcollanti, sputando rivoli biancastri, travolti da un’onda di neve scagliata dal vento.Grandine.Si scaraventa su di noi e sono sassate grosse come castagne. Riparati dai caschetti e dalle corde, sollevate a scudo, prendiamo riparo tor-nando sui nostri passi e infilandoci nella terminale, in un anfratto del ghiaccio incuneato sopra un blocco azzurro incastrato nella fenditura, ansimanti e doloranti.Sopra di noi il cielo è scomparso, inghiottito da un ribollire nero. Ci stringiamo nell’anfratto uno contro l’altro, sfilo il mio sacco da bivacco con mani tremanti, lo usiamo alla meno peggio a mo’ di tenda – assai troppo stretta per tutti e tre.Gigi urla sopra il vento: «Che facciamo?»Gli rispondo prendendo fiato a fatica: «Così è impossibile! Ma non può durare. Appena cala un po’ andiamo di corsa al rifugio, d’accordo?».David risponde cercando di controllare il tremito nella voce: «Va bene!»Vedo riflesso un bagliore istantaneo nelle sue sclere, un bagliore giallo e ramificato – mi volto in su insieme al boato del tuono e scorgo distintamente, un secondo dopo, un secondo fulmine aprire una frustata nera nella parete blu del crepaccio che ci ospita, solo una trentina di metri più a monte. Poi un grande seracco si stacca, si rompe e sfila giù in quel sorriso rovesciato, disgregandosi in blocchi lucenti che cadono, cadono e svaniscono sbriciolati nel nero senza fondo.Guardo i frammenti cadere. Quanto è profondo? Centinaia di metri, sterminati labirinti insondabili e sconosciuti, rotti dai movimenti instancabili del ghiaccio; sento tutto muoversi là sotto, continuamente. Cose fredde che si muovono nell’abisso buio.Un’ora dopo ci trasciniamo, legati in cordata, nella neve fresca caduta in seguito al temporale, ovattando i suoni e avvolgendo il mondo in un silenzio morbido. Ci arriva alle ginocchia e le gambe pesano come macigni.Adesso si è risollevato il vento e grida acuto la sua rabbia.Non vediamo nulla oltre tre o quattro metri di distanza, la neve ha portato con sé una nebbia solida, fatta di nevischio turbinante e che scivola nel collo e negli occhi e nelle narici.Non c’è segno della nostra traccia di stamattina. Procediamo per istinto, ruzzolando spesso e tastando il terreno con le piccozze a ogni passo per non finire inghiottiti da un crepaccio oscurato dalla neve leggerissima. Stiamo seguendo il filo roccioso di un grande costone che ci pare quello sotto la base dello sperone Kuffner – probabile che ci siamo spostati troppo verso valle, ma la direzione sarebbe anche buona – e ci spingiamo avanti lungo il pendio a mano a mano meno ripido.Nel soffio della neve, un soffio più profondo.Un soffio animale. Antico.Qualcosa che si muove sotto di noi, strisciando. Enorme.Quando mi volto percependo il tremore di una muraglia di ghiaccio appena lasciata alle spalle, scorgo David sull’orlo di un crepaccio largo almeno quindici metri – la larghezza la immagino, poiché nella tempesta ne posso soltanto intuire il bordo lontano – e lo vedo piegato dallo sforzo, avanzare buttando avanti il piede ramponato e puntandosi per un secondo a riposare sulla piccozza, accanto a lui s’innalza un seracco simile a una piramide di decine di metri, la cui cuspide si perde nelle nebbie. Dall’abisso alle sue spalle ne emerge adesso un altro ancora più vasto. Ma non è un seracco. Un globo nero e allungato a lancia, deforme.Ricordo l’occhio. L’occhio grande come il mio amico, una pupilla rotonda e nera sull’iride giallo-rossastra.Vinco la paralisi e urlo “Via!” e sollevo la piccozza in sua direzione un secondo troppo tardi. Un viticcio nero e viscido è strisciato su dal crepaccio, spesso come il ramo di un albero gli si è avvolto attorno alla caviglia e adesso David è andato giù. Vedo Gigi voltarsi mentre lo strappo della corda mi solleva di peso dal ghiaccio e volo per due metri verso la rottura, mi schianto e rotolo due volte su me stesso, poi sollevo la piccozza e la pianto con un colpo solido nel ghiaccio, stringendola con tutte le forze. La corda mi tira verso la bocca spalancata della voragine.

A due metri da me vedo Gigi spianarsi nella mia stessa posizione. La tensione si allenta per qualche secondo, ora è tutta su di lui. Lo sento urlare e la corda strattona e lo vedo perdere centimetri sull’impugnatura dell’attrezzo. Il soffio. Il soffio si alza nella bufera.Di colpo la corda è molle. Gigi si alza stringendosi la vita e tossendo, poi zoppica verso il bordo chiamando a tutta voce David. Mi sollevo e lo rincorro a passi pesanti. Lo afferro per una spalla e lo tiro indietro tanto forte che lui ricade sul ghiaccio. «No!» gli urlo. «Dobbiamo andarcene subito!»«Ma che dici? Dobbiamo riprendere David!»Scuoto la testa, gli occhi sgranati. «No, è troppo tardi. Non è caduto. Tu… non hai visto!»Rialzandosi, mi spinge via. «Sei impazzito?» Muove un passo di nuovo verso il crepaccio. «Dobbiamo aiutarlo per Dio! Sarà incastrato lì sot»Di nuovo lo interrompo con uno strappo, ho afferrato il suo zaino e tiro, gli punto la piccozza al collo. «Dobbiamo andare via, Gigi. C’è qualcosa là sotto. Ha preso David. Gigi, l’ho visto!»Forse sono i miei occhi o i racconti di mostri che entrambi amiamo troppo profondamente per scherzarci sopra. Non ora, almeno. Forse è la stanchezza, forse i vestiti fradici. O, più facilmente, in fondo il soffio l’ha sentito anche lui. Certe cose a volte le sentiamo, ma decidiamo inconsciamente di non registrarle, di non soffermarci e dimenticarle e andare avanti per la nostra strada. Per non impazzire. Mi crede.«Do… Dove?»«Di là!» gli sibilo. «È l’unica. Andiamo».Corro verso il costone, dapprima trascinandomelo dietro tirando la corda come fossi un cane disobbediente, un cane da slitta che si tira dietro da solo il suo carico, poi la corda si fa più docile e sento i suoi passi far gemere il ghiaccio alle mie spalle. E lui urla mentre io salto. Quando impatto contro il ghiaccio, tutto ciò che ricordo è il tentativo di voltarmi e frenarmi con la piccozza, gettandomi fronte al pendio. Non so se ci sono riuscito.Quando riprendo i sensi dev’essere per il freddo. Buio. Sento il ghiaccio bruciare contro la guancia e fatico a staccarla dal suolo. Difficile comprendere da dove venga il dolore, è dappertutto, sono un guscio di dolore, ma sono cosciente e mi rendo conto di essere di nuovo in piedi. I ramponi mordono il ghiaccio, ancora stretti agli scarponi.Non vedo lo zaino, ho la piccozza stretta in mano, in una presa che non riesco a allentare.Rovisto con l’altra mano che con orrore per un attimo mi pare priva di dita – ma ci sono – nella tasca del giubbotto e trovo la frontale, che fatico a accendere. Funziona. Nel nero si spalanca un cono giallastro, che spazza sopra neve fresca e immobile. Silenzio nero.Arranco un passo e mi accorgo di poter camminare. Ma Gigi non c’è.Lascio roteare la testa con lentezza per far scorrere il fascio luminoso. La mia corda finisce sepolta dalla neve poco più a monte. Ne seguo l’ideale direzione sotto la superficie con il rigagnolo di luce, fino a una sagoma nera attorcigliata a un masso bruno sporgente. La mia luce si riflette contro una lama di metallo, la becca della sua piccozza. Stringo gli occhi. Il resto della sagoma è il suo corpo scomposto, dietro il vapore esile del mio fiato a disegnare nella luce – così piccola e sparuta nell’immensità del buio del ghiacciaio – forme che mi osservano nella notte.Il suo viso, gli occhi spalancati e fissi, biancastri. Una falce rossa e una colata ghiacciata di sangue a minuscola stalattite dalla sua tempia.Raggiunsi il Diavolezza alle due di notte. Raccontai che avevo perso due compagni a causa della tempesta, durante la ritirata dalla Kuffner. Uno caduto in un crepaccio, uno scivolato giù dal costone e schiantato sulla roccia. Il resto magari lo avete letto su qualche rivista di montagna, e forse – ma dubito – qualche giornale ha dedicato alla “tragedia” poche righe imprecise e superficiali. D’altra parte nessuno di noi tre era abbastanza famoso, né come alpinista né come scrittore, per suscitare eco particolari, né la nostra disavventura – per come la raccontai – aveva contorni tali da attirare l’attenzione dei media: solo una delle tante disgrazie che capitano a chi, come noi, si diverte a rischiare la vita in una maniera che alla gente di valle pare sciocca e inconcepibile lassù tra i ghiacci.Non aggiunsi il resto.

Ho sentito ripetere un numero sufficiente di volte, e a sufficienza ho letto libri al riguardo, di come agli alpinisti, a certe quote e in certe situazioni d’emergenza e affaticamento, capiti sovente di cadere vittima di allucinazioni.Io stesso avevo già visto strane cose sui ghiacciai, in passato, e mi ero lasciato convincere fossero suggestioni.Tutto ciò che posso fare è raccontare la verità in questa sede, fingendo si tratti “solo” di una storia dell’orrore. Ma io so cos’ho visto sul Ghiacciaio del Pers.Ogni anno i ghiacciai recedono, a causa del riscaldamento globale, diverse decine di metri. Accade in tutto il mondo e ormai ogni anno è peggio. Alcune vedrette alpine trent’anni fa sterminate oggi sono solo irrisori lembi di ghiaccio. Coltri di ghiaccio spesse centinaia di metri, che si fanno veli sottili.E quello che attende là sotto, congelato nel buio da ere geologiche, si sta svegliando.

Profilo dell'AutoreDaniele Bonfanti è autore del romanzo Melodia (Edizioni XII) e di racconti tra weird, avventura, orrore e fantascienza; è curatore di varie raccolte di racconti, come Archetipi, Carnevale e l'attesa Discronia, tra cui l'ultima: Arkana - Racconti da Incubo (Il Posto Nero Free Ebooks) insieme a Alessandro Manzetti. Studioso di semiotica intepretativa, lavora come editor per alcuni autori e realtà letterarie. Dal 2010 è editor personale del maestro italiano dell'horror Danilo Arona. Per Edizioni XII dirige la collana Camera Oscura, e collabora come editor. Per oltre due anni ha curato rubriche fisse legate ai misteri antichi sulla rivista Hera, per la quale ha anche scritto tre saggi; ha collaborato come articolista o responsabile di rubriche con altre riviste e portali. E' Associate Member della Horror Writers Association, e ha contribuito a progetti di HWA Italy, la filiale Italiana della Horror Writers Association.  Sito Web

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