Quel "Baal" nel nome di Annibale

Creato il 14 maggio 2015 da Marino Maiorino

Busto di Annibale conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Questo è un post telefonato.
Qualche tempo fa ho ricevuto un'e-mail da un amico di vecchia data (ciao, Fabio!), nella quale mi chiedeva se, nel nuovo romanzo, avevo indagato l'aspetto religioso in Annibale e nei cartaginesi, e tutto ciò che ne deriva.
Ovviamente, la risposta è sì: come potevo dare personalità ai miei personaggi senza cercare di immedesimarmi in essi e valutare ogni aspetto delle loro vite? Ma siccome il romanzo non è un trattato di religione comparata, l'aspetto religioso può entrarci solo se il personaggio lo vive.
Nondimeno, il discorso è interessante per molti motivi, dunque ecco un post dedicato al sentimento religioso dei cartaginesi (e a Fabio, il mio amico, naturalmente).
La religione dei Cartaginesi era quella dei loro antenati fenici che, abbandonata Tiro, giunsero al seguito della regina Didone sulle coste dell'attuale Tunisia, dove trovarono una nuova casa.
Che furono guidati da una donna e non da un uomo è rimasto in moltissime tracce della loro cultura, nei resoconti degli autori romani, e infine nella speciale devozione verso la dea Tanit, una dea madre venerata a Cartagine come non fu venerata a Tiro col nome di Ishtar (Astarte).

Stele raffigurante la dea Tanit a Cartagine.
Fonte: Wikimedia Commons

La religione dei Cartaginesi era politeista e, seguendo un tipico schema greco che tracciava parallelismi tra culture anche assai diverse, i Romani videro in Tanit una Juno Caelestis, in Eshmun un Asclepio, in Melqart un Ercole. In Baal individuarono l'equivalente del latino Saturno.
Questo Baal, nome di chiara matrice mediorentale, noi lo ritroviamo anche in un altro libro, del tutto scorrelato con gli eventi narrati in Neapolis - I signori dei cavalli: La Sacra Bibbia. Nella versione latina (Vulgata) del Secondo Libro dei Re e del Vangelo secondo Giovanni, infatti, quando si parla di Baal-zebub (Belzebù), il “Signore delle mosche”, non si ritrova nient'altro che il tentativo dei seguaci del Dio d'Abramo di demonizzare i loro nemici naturali, quei Fenici (Philistim - Filistei) coi quali il popolo ebraico si era scontrato tante volte. In questo modo, il principale dio del pantheon Fenicio diventava uno dei più potenti demoni, e la guerra contro i Filistei diventava guerra santa (aspetta, dove l'ho già vista 'sta cosa?).
Per i Fenici era naturale attribuire ai bambini nomi che li ponessero sotto la protezione degli dei, d'altro canto anche noi Cattolici diamo alle volte ai bambini il nome di santi ai quali siamo particolarmente devoti, e ne onoriamo la ricorrenza con l'usanza dell'onomastico. Ma va osservato che nell'uso italico questa non era un'abitudine diffusa: a Roma i nomi propri erano legati a molti accidenti (Appio, Aulo, Gaio, Gneo, Lucio, Publio, Quinto, Sesto, Spurio, Tito, Valerio), ma più rari (sebbene assai diffusi) erano i nomi che omaggiavano le divinità, come Marco e Tiberio. Anche tra gli altri popoli italici troviamo Numerio, Stazio, Decio, Mano, Alfio, Caio, Mario, Badio, Ponzio, Postumio, Pacuvio, Sthenio, Vibio, Erennio, Erio, a fronte di un isolato Kerrino (“dedicato a Cerere”, del quale avremo modo di parlare più ampiamente in un altro post).
I nomi dei Cartaginesi sono invece assai più devoti: Hannibaal, Azurbaal, Hamelqart, Maharbaal… Ce n'è un numero non riconducibile a divinità (Hanno, Imilco, Carthalo), ma la proporzione tra i due gruppi è sensibilmente diversa rispetto al caso italico.
Hannibaal viene tradotto con “Dono di Baal”. La prima parte del nome la troviamo anche in ebraico: è il nome della madre della Vergine Maria, Anna per l'appunto. D'altro canto, per quanto il popolo ebraico e quello fenicio fossero stati nemici da sempre, la vicinanza aveva certamente portato a notevoli influenze dall'una e dall'altra parte, anche in campo linguistico.
Eventi eclatanti di matrice religiosa intorno alla figura di Annibale non possiamo citarne molti. Quando aveva soli otto-nove anni, il padre stava preparando la sua spedizione in Iberia e, durante i sacrifici a Baal, chiese al figlio se l'avrebbe seguito. Alla risposta affermativa del bambino, gli ingiunse di giurare sull'altare che non avrebbe mai stretto amicizia coi Romani. Il bambino crebbe dunque in un campo militare, istruito da militari e, tra tutti, suo padre era un'autentica volpe. È probabile che Amilcare (Hamelqart), potendo raggiungere i propri obiettivi con l'intelligenza e l'astuzia, non diede mai estremo rilievo alla religione, e per certi versi ciò semplificò l'impresa del figlio, il comandante di un enorme esercito composto da uomini di tante religioni diverse che mai destarono problemi nei vent'anni di permanenza del Cartaginese in Italia per motivi religiosi.

Annibale bambino presta il suo giuramento.
Fonte: The New York Public Library Digital Collections

Al contrario, Annibale alle volte approfittò della superstizione altrui, come quando giunse in Italia e trascorse l'inverno tra il 218 e il 217 a.C. tra i Galli Cisalpini. Ci viene narrato che, non fidandosi dei suoi anfitrioni, si cammuffava continuamente, apparendo ora come un giovane, ora come un anziano, al punto di aver fatto credere di essere lui stesso di natura divina.
Non si può certo biasimare Annibale se ricorreva a simili mezzucci: in campo avverso, intorno alla figura di Scipione, quello che poi divenne l'Africano sconfiggendo proprio Annibale a Zama, si narrava che la madre l'avesse concepito dopo che un enorme serpente era stato visto nella camera da letto, ed era poi scomparso prodigiosamente. L'aneddoto era lo stesso che si narrava a proposito del concepimento di Alessandro Magno.
Durante tutto il conflitto fu imposto un accento notevole delle autorità romane sul sentimento religioso. In particolare Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore, cominciò la sua dittatura all'insegna del placare gli dei che erano stati offesi dal contegno del console Flaminio, il responsabile del disastro del Trasimeno. Flaminio, un plebeo, temendo che il Senato avrebbe trovato il modo per trattenerlo a Roma impedendogli di affrontare il Cartaginese, andò a rilevare l'esercito a Rimini prima dell'inizio del suo incarico, in tal modo mancando alle celebrazioni ufficiali per l'avvio del consolato. Fabio attribuì alla collera divina il disastro che ne seguì, evitando in tal modo il risentimento dei plebei e cercando di reinstillare nei Romani un più attento amor di patria.
E veniamo infine ad un tratto che viene sempre dipinto dal vincitore di una guerra nei confronti del perdente: la crudeltà. A sentire Livio, tutti i peccati morali possono dirsi di Annibale e dei Cartaginesi. Sono violatori dei patti e dei trattati, sono rapaci, sono crudeli, sono empi (da im-pius/im-pietas) nei confronti dei nemici. Per quel che riguarda la religione, compiono sacrifici umani e, alle volte, di bambini.
Se effettivamente i Cartaginesi compiessero sacrifici di bambini è cosa che viene al momento dibattuta, quindi non entrerò nel merito della cosa, ma persino le fonti del tempo possono indurre a porci domande. Polibio, coevo di Livio, che pare abbia letto il resoconto dell'impresa di Annibale dal diario che il Punico lasciò presso il tempio di Juno Lacinia, a Kroton, e che purtroppo è andato perduto. Il resoconto della guerra annibalica nella narrazione dei due autori prosegue parallelamente, ma Polibio omette molti giudizi gratuiti sulla crudeltà del Punico. Ma è mettendo insieme tutti gli eventi che si ottiene un quadro di normalità (per il tempo) degli eventi narrati.

L'ultima colonna del grande tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna, nei pressi di Crotone. Qui Annibale lasciò copia dei suoi diari prima di imbarcarsi alla volta di Cartagine minacciata dai Romani.
Fonte: Wikimedia Commons

Si dice dunque che Annibale era particolarmente crudele coi suoi nemici, ma sono i Romani che tagliarono la testa del fratello Asdrubale e la lanciano nell'accampamento di Annibale per comunicare al Punico l'esito della battaglia del Metauro! E ciò, dopo che il Cartaginese aveva ripetutamente reso tutti gli onori alle spoglie dei generali romani da lui sconfitti in battaglia!
Eccolo, l'uomo assetato di sangue: subito dopo il Trasimeno e Canne, Livio ce lo raffigura mentre si intrattiene a dialogare coi prigionieri Romani, dichiarando di non essere animato da alcun odio inestinguibile nei confronti di Roma: lui combatteva per restituire prestigio alla sua Cartagine, e Roma avrebbe ora dovuto cedere alla sua capacità militare così come Cartagine aveva accettato i termini del primo conflitto. Insomma, Annibale si comporta in guerra come un autentico sportivo.
Per quel che infine riguarda i sacrifici umani, sarebbe bene menzionare quelli compiuti a Roma dopo Canne, quando veniamo a sapere che
obbedendo al Libro del Fato che era stato consultato dai decemviri, si fecero dei sacrifici strani, inusuali, tra essi sacrifici umani. Un uomo e una donna delle Gallie e un uomo e una donna greci furono sepolti vivi nel Foro Boario, in una volta di pietra che era stata precedentemente macchiata da vittime umane. La pratica era forse repellente ai sentimenti Romani, nondimeno il sacrificio fu compiuto, e ciò suscito collera e indignazione tra molti alleati.
In questo passo, sono i decemviri, i custodi della religione romana, a ordinare il sacrificio umano, e Livio ha il suo bel daffare nel cercare di mitigare il fatto, che evidentemente destò risentimento tra gli stessi alleati dei Romani.
Sia come sia, ancora una volta è azzeccato il detto “la storia la scrivono i vincitori”, e la religione romana ci è stata tramandata come pacifica e incruenta, i generali romani come uomini pii, mentre Annibale e Cartagine hanno sofferto la sconfitta e la loro memoria l'infamia che ne è seguita.

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