QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.38: Sapere salem (et sapientiam). Aldo Roda, “Figure del sale”

Creato il 25 aprile 2010 da Retroguardia

di Giuseppe Panella

 

Sapere salem (et sapientiam). Aldo Roda, Figure del sale, con un’ Introduzione di Massimo Donà, Firenze, Gazebo, 2008

E’ un nuovo capitolo di un lungo poema in fieri questo pubblicato da ultimo da Aldo Roda.

«”Io, / zolla di sale”, dice di sé il poeta. Quasi… fiore che viene tra rovi; ma, nello stesso tempo, anche “animale chiuso in / cassa di pietra / gettato in mare”. Eppure, il suo volto è simile al fiore; che “nasce aperto calice”. Come il sale che l’acqua scioglie e fa suo; trasfigurandone in qualche modo la durezza. Quella stessa che contraddistinguerebbe anche una cassa di pietra; la quale, gettata in mare, rinascerebbe comunque a nuova vita. D’altro canto, ogni vero poeta “depone il proprio guscio di noce”. Durezza necessaria era infatti quella che, sola, gli avrebbe consentito di risolvere ogni desiderio in fiore. Durezza che ogni grano di sale restituisce nella propria falsa opacità; menzognera, dunque… eppur necessaria. Necessaria, cioè, a potersi fare “riflesso di vetro”; vera e propria trasparenza che tutto in sé riuscirebbe ad accogliere, sotto la maschera che, del “vero”, sa esser sempre nello stesso tempo anche custode. Così il poeta, dunque; che conduce le cose dal non essere all’essere come sapeva bene già Platone. Per un gesto comunque sacrilego. Così, d’altro canto, “parla anche la natura”»

scrive Massimo Donà nel suo Protetto demone dell’Io. Il verso ‘diviso’ di Aldo Roda, la sua lunga e perspicua Introduzione a questo nuovo libro di Aldo Roda, architetto e poeta (p. 5).

Il sale di cui l’autore canta e descrive le peripezie è ovviamente quello, assoluto, della sapienza alchemica. La “via umida”: la depurazione della materia per ottenere il composto che lega e mette in comunicazione gli elementi maggiori dello zolfo e del mercurio (solitamente indicati come anima e spirito mentre il sale sarebbe il corpo – in tutta una serie di tradizioni alchemiche non sempre considerate adeguate al loro compito). Per metafora, dunque, il sale rappresenta il corpo oggettivato della purificazione della materia quale momento iniziale della pratica di realizzazione del composto-ponte che servirà ad accedere alla via della saggezza. Nell’ottica di Roda, tuttavia, il sale non è tanto (o soltanto) la metafora più esterna dell’opera meravigliosa e straordinaria di rigenerazione della materia che porterà al compimento supremo del raggiungimento della pietra filosofale quanto l’espressione (questa sì vivente e raggrumata in parole) della scrittura poetica.

«Immagini / colpi di ferro / il dio / spegne il sole. / Mura rosse / strade dove il suono / si espande. // Nel volto umano / appare / quanto è nascosto. / Metalli assumono / forme animali / silenzi di farfalla» (p. 11).

E’ una prospettiva apocalittica quella che dilania la poesia di Roda: la “morte del Sole”, disastro annunciato fin dalla fine dell’Ottocento positivistico e ottimista, diventa scomparsa della soggettività e sua mutazione. Il mondo esterno si metamorfizza e converge in disarmonie diverse e irricomponibili, in modo tale che composita solvuntur. Il regno animale si ricongiunge a quello minerale e l’uomo si rivela nella sua natura piena, senza ipocrisie, senza rinvii, senza illusioni.

Sono queste “le figure del sale”: il mondo capovolto dell’uomo si rimette sui piedi per svelare il suo volto vero. Come è successivamente scritto a p. 22:

«Perdo il senso / di essere / la mia fisionomia. / Distruggo pensieri / per imprimere un volto / nella memoria. // Sulla terra cadono / astri privi di vita. / Ali d’aquila / per volare nel deserto».

La soggettività si dissolve sotto la spinta del sale che monta – la realtà che costituisce il volto emerso e consolidato dal tempo (l’identità di pensiero e corpo) si scioglie e perde la sua fisionomia. Il mondo è “fuor di sesto” e occorre una guida legata alla natura superstite per riuscire ad andare oltre il deserto e uscirne indenni.

A p. 12, il capovolgimento in atto stravolge ogni realtà consolidata:

«Falco di palude / in aria / che aria non è. / Non ruota la terra / cade il sole. / Annunciata da suoni / la fine ci vede diversi / senza confini / specchi infranti / del passato. / Oca selvatica / fuori dal tempo / entro questo lago / che lago non è».

Tutto appare diverso da quello che è o dovrebbe essere. Gli elementi appaiono spiazzati e incoerenti con il loro ruolo – il sole e la terra non sono più in un rapporto costante tra loro ma l’uno precipita sull’altro. La fine accentua le diversità e impedisce alla realtà di avere più un senso. La catastrofe stravolge i confini deputati del mondo e cancella le definizioni già date e consolidate della vita.

Ma tutto è in grado di ricomporsi e di ricominciare. Il mito disserta la tenaglia spaventosa del non essere e riconsegna il mondo ai suoi abitanti capaci di accettarlo e di riconquistarlo:

«Lanterne scoprono / le mie gambe / di cavallo. // Sono il centauro / dalla testa umana / il fiore luminoso. / Apro cime di monti ! / Sono midollo di / spina dorsale / fascio di nervi / muscolo / cartilagine. // Quando penso / innalzo / la vena rossa del sangue» (p. 32).

Il mito reintegra le possibilità umane. Il centauro sintetizza tutte le possibilità che sembravano perdute, rinnova il ciclo naturale, costituisce il ponte (il sale) tra natura e mente umana. Il mondo si rinnova e si ricompone in un unico elemento.

A p. 13, questo concetto è ribattuto e analizzato:

«Svegliarsi all’alba / per tornare fiume. / Il vaso di terra / contiene / fuoco di Giona. // Impossibile essere / corteccia sensibile / istante. / Ho deposto / il guscio di noce / (materia necessaria) / affinché / ogni desiderio / sia risolto in fiore».

Il corpo fiorisce e si fa bellezza, desiderio, sogno. Il “fuoco di Giona”, la volontà di un destino autonomo, la ricerca assoluta di una scelta non imposta da altrui ma assunta in proprio come soluzione dei problemi che angustiano la propria vita, danno forza e duttilità al vaso di terra che contiene lo spirito (e che, come insegna Harold Bloom in un suo libro famoso, si infrangerà e creerà quella commistione tra spiritualità e istinto materiale che contraddistinguerà gli uomini a venire).

Il “guscio di noce” capace di navigare nell’oceano in tempesta approderà sulla terra per diventare elemento necessitante alla fioritura del desiderio.

L’Io, allora, risorge ma non è più volto – è sintesi tra animalità e natura vegetale. Il volto non è più indispensabile – basta il corpo (il sale) della sintesi tra ciò che è del tutto diverso ma è attratto proprio dalla sua diversità:

«Io, / specchiato mistero / il respiro / (tempo senza limiti). // Adesso / nasci animale / e albero. / Quando eri volto / sentivi distesa / profonda acqua» (p. 48).

In questo nuovo tassello della sua ricerca, allora, Roda sembra sempre più convinto della necessità di una poesia di concetti-immagini, di parole frante e irte come pietre spezzate dal vento e dagli elementi in rivolta. In essa, la sua idea di poesia concettuale sembra inverarsi in iperboli e in negazioni dal sapore assoluto, intese a colpire con la forza della loro espressività.

Una tensione rovesciata la percorre e conduce verso una nuova idea d’Uomo, non più nemico ma coincidente con una Natura libera e indomita di cui non teme il conflitto e la separatezza.

La Terra conculcata e violata dall’uomo si rivela, nei suoi versi, l’unico luogo su cui vale vivere per realizzare il proprio desiderio mai domo di bellezza.


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