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QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.39: “Enciclopoesia” per tutti e per nessuno. Il “Libro grosso” di Ennio Cavalli

Creato il 29 aprile 2010 da Retroguardia

 

Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)

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di Giuseppe Panella

 

Enciclopoesia per tutti e per nessuno. Il Libro grosso di Ennio Cavalli (con postfazioni di Alessandro Fo, Roberto Roversi ed Erri De Luca, Torino, Nino Aragno, 2009)

Anche se è grosso davvero (sono quattrocentosessantotto pagine di versi!), questo libro di poesie di Ennio Cavalli è un libro “normale”. E’ “normale” come può esserlo un libro di poesie, certamente, o addirittura un libro qualsiasi dato che non esistono certo libri “normali” ma ognuno di essi è diverso l’uno dall’altro proprio perché non può (e non vuole) essere considerato simile agli altri libri. E anche se è un “libro grosso”, la sua grandezza e il suo spessore non gli impedisce di essere leggero, leggibile, godibile, spesso scanzonato e provocatorio. Con esso, Cavalli, un autore ben noto anche precedentemente per le sue opere in verso e in prosa, ha vinto il Premio Viareggio nel 2009.

Non è certo questo, tuttavia, il motivo di maggiore interesse del libro. L’autore teneva, invece (maggiormente, forse) al carattere “generale” della sua opera tanto da spingerlo a definirla, con neologismo divertito e audace, una sorta di Enciclopoesia:

 

«Libro di storia e di grilli, Libro di scienza e di nani, Libro di sillabe, i tre rivoli confluiti in Libro grosso, dono in realtà due sussidiari e un sillabario, risorse elementari e contagiose. Risultato di scavi compiuti nell’arco di un quindicennio. Non sempre a cielo aperto, a volte in dei cunicoli. Scavi abusivi, certo. La storia è un pretesto per stanare l’infanzia delle cose. La scienza invita a raccontare la Natura. Infine le parole per dirlo, abbecedario di insistenze e slanci. Dal pretesto al contesto. Questa paziente Enciclopoesia fra storia, scienza, grilli, nani e sillabe, somiglia a uno di quei borghi ai limiti della campagna, col suo frinire di voci, vicino al circo dell’infanzia, coi suoi energumeni piccolini, in fondo a un porticato stretto a dei lampioni, a dei cartelli. Qualcosa di emerso dalle acque che continua a gocciolare» (p. 5).

Se fosse davvero così saremmo in pieno Palazzeschi, quello di Rio Bo. Ma non è certo sicuro che vada davvero così. Le intenzioni di Cavalli sono, da un lato, più serie (in qualità di poeta, egli crede nella storia), dall’altro, meno sperimentali (in qualità di scrittore, crede ancora nella forza della poesia). Certo non siamo più in un tempo in cui Giacomo Zanella, nel suo magistrale Sopra una conchiglia fossile (nel 1864, cioè), poteva cantare l’evoluzione positivistica di stampo darwiniano e coniugarla con la dimensione cristiana di tipo modernista oppure Alberto Cavaliere poteva mettere in versi la Storia romana o la Chimica (anche se talvolta ci siamo vicini e, quindi, dalle parti di Achille Campanile). In realtà, la tensione poetica di Cavalli si accoppia alla passione civile e alla costruzione di un paradigma di interpretazione della storia (per quanto si voglia scolastica e “infantile”) e, quindi, ricorda molto di più certe rivisitazioni storico-oniriche presenti nell’opera del secondo Borges (quello che si dedica alla redazione di possibili congetture sulla storia in El Hacedor del 1960 o in El otro, el mismo del 1964). Oppure, in un’ottica meno critica ma altrettanto tagliente, il Mausoleum. Trentasette ballate dalla storia del progresso di Hans Magnus Enzensberger uscito nel 1975). La sua scrittura della storia, comunque, cerca di comprendere e capire piuttosto che giudicare. Ma quello che Cavalli intende per poesia e pratica poetica lo scrive a chiare lettere e con sicura efficacia proprio alla fine del “grosso libro”:

«Questa poesia. La voglio lurida, questa poesia, / la voglio ludica / la voglio logora / scritta su carta vetrata / ricamata su tela tarlata / da usare come straccio per terra / la voglio in guerra, questa poesia, / mitragliata come pericolo / declamata da un folletto smargiasso / esiliata per parassitismo / bendata e rapita / crocifissa da uno sguardo / come insetto da uno spillo. / La voglio in gabbia come un grillo, / fuori raccolta, / perno della mia svolta. / Che la ruggine di finte melodie / ingoi le altre poesie. / Che il foglio torni bianco / come cava di calce / come casa sul mare / senza un filo di niente / pur di ricominciare» (p. 468).

C’è il rifiuto programmatico di una poesia accademica e paludata ma anche la consapevolezza che la poesia di per sé non può essere considerata un’attività in cui non ci si sporca le mani, fuori dal recinto delle proprie incombenze umane e quotidiane e, quindi, una pratica inutile che non solo non serve a niente ma trasforma la propria bellezza in un affare che riguarda soltanto il poeta e la sua “anima bella”. La poesia è “logora”, è “tarlata”, è vecchia – eppure risulta sempre nuova. Ogni volta, il foglio sul quale è scritta ritorna candido, vergine come la prima volta in cui è stato attraversato dal caldo fiotto d’inchiostro della penna o tracciata con i segni neri e obliterativi della scrittura che la circonda e la racchiude come in un’arena oscura o in un territorio da esplorare. Ma è anche una macchina da guerra per raggiungere qualche verità e definirsi con sincerità come l’opposto del senso comune. Come scrive Roberto Roversi in una sua bella postfazione intitolata Il cicaleccio dell’universo al Libro di scienza e di nani:

«Ennio Cavalli è poeta, un poeta indocile. Voglio dire, non stretto da regole, non vincolato a poetiche ma solo ubbidiente, strepitosamente, a un estro mai quieto, mai appagato. Tanto che ogni testo è come un viaggio breve di Ulisse, su mari poco tranquilli anche se rilucenti. Ma neanche è, davvero, un poeta estroso, frastornante, che addestra la sua inquietudine con la frusta di un’arroganza infuriata. La sua indocilità, che è un fermento di umori, mi sembra che tenti di trascinare il lettore, invitandolo con spettacolari attrazioni, a speculare un poco per volta l’ignoto che è fori di noi, che è dentro di noi, che è brivido delle nostre mani e brivido dei pensieri. E questo accompagnamento o invito al viaggio è sotto il segno di un acceso desiderio di conoscere, di guardarsi intorno assemblando, di capire, di ascoltare» (p. 287).

Quello che semmai risulta oscuro e un po’ incongruo è il paragone di questa poesia con quella di Angelo Maria Ripellino, tutta risolta in ambito surreale e un po’ folle (come si addice a praghese convinto). La poetica di Cavalli è tutt’altro che onirica, anzi mi pare assai più lucida di quanto vorrebbe mostrare – è semmai ludica e scivolosa, come un piede che vorrebbe avanzare con decisione sulla strada del significato e ogni volta trova degli ostacoli di senso che lo deviano e lo spingono sul terreno del significante (a differenza di quanto avviene, invece, con Ripellino). Ma è certamente vero che il poeta compie ogni volta un viaggio alla ricerca dei limiti di se stesso e delle sue immagini di parole.

Lo ammette poi lo stesso Cavalli quando sostiene in Etimologie (p. 330):

«Nell’unità, nei fossi delle parole / ci sono favole per bambini e famiglie / nidiate di fratelli Grimm / l’evoluzione della specie / dialetti e marinai / le negazioni in sanscrito / benedizioni, rime / l’imperativo e l’imperativale / il deponente, il departecipiale / paure furbe e viaggi condannati / fendenti tuffi boccoli / il frutto del peccato e le sue spore / ali d’insetto e aquile, / ma il Dio delle parole non si nomina».

Le parole non sono altro che il modo in cui l’umanità definisce e gestisce il proprio destino – ad esse appartengono le sue favole di fondazione, il modo di vedere il mondo e di de-costruirlo per cambiarlo, il senso dei viaggi e della paura dell’ignoto, la capacità di coniugare sostantivi con verbi imperativi o di verificare la natura passiva del loro agire, la volontà di trasgredire e di far deflagrare il senso della vita stessa in modo più o meno reattivo. In realtà, la poesia non è altro che la capacità di mantenere uno sguardo ingenuo sul reale e di purificarlo nei modi appropriati:

«Kosher. La poesia è cibo kosher, / carne e latte senza macchia. / Sazia di sé anche il digiuno» (p. 353).

La purezza della scrittura corrisponde alla sua capacità di ricostruzione del mondo (della storia remota e di quella presente, della scienza e delle vicissitudini della tecnica) in modo tale da mostrarne aspetti sempre diversi e sempre inconsueti mantenendo lo sguardo puro di chi si sente in certa misura capace ancora di riderne (o almeno di sorriderne).

Come Cavalli stesso sommessamente concede in una delle sue Sentenze, la numero 9 della serie omonima (p. 398):

«Il bravo poeta non si innamora mai delle parole. Un colpo di speroni e via».

E’ il “colpo di speroni” della vita che concede alla poesia di essere migliore di se stessa, anche perché – come è scritto nella sentenza 11:

«Premio del passato è la memoria, lo riscuote il presente».

Allo stesso modo, come il presente costituisce la vittoria della memoria sull’oblio, il premio della poesia è la sua capacità di dire la verità sul mondo e su se stessa – anche a costo di mentire sempre.

 


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