QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.46: “Temi la morte per acqua” (William Shakespeare, Enrico VI). Anna Vincitorio, “Il richiamo dell’acqua”

Creato il 05 luglio 2010 da Fabry2010

Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)

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di Giuseppe Panella

“Temi la morte per acqua” (William Shakespeare, Enrico VI). Anna Vincitorio, Il richiamo dell’acqua, con una prefazione di Sandro Gros-Pietro, Torino, Genesi, 2009

«AL LIMITARE DEL GIORNO. Al limitare del giorno / quando scende opaco il silenzio / restano schegge di parole / non dette, pensate, forse / Ricompattate creano calore / Nasce un piccolo sole, / quello del ricordo / Lontano le ombre / nei meandri dell’acqua / che fu madre all’inizio / Il sipario è calato / Sopra, un tetto di stelle» (p. 48).

Nella poesia finale della sua raccolta, Anna Vincitorio congela in frase semplici e naturali tutto l’impatto estetico riconducibile alla sua scrittura. La memoria poetica produce schegge di parole, ansiose, inquiete, mai rivelate all’esterno che si raggrumano e si rastremano in costellazioni di ricordi. La loro luminosità allontana le ombre del disappunto e del dolore presenti in quegli stessi momenti e ne fanno uno strazio dolente ma addolcito dalla pienezza della vita cui rimandano. Tutto si fa languida onda d’acqua e affonda lentamente nell’immenso alveo materno cui il tutto da sempre rimanda e ritorna e anela. Quel che resta del giorno qui diventa quel che resta del verso.

Scrive Sandro Gros-Pietro nella sua Prefazione al volume:

«Per sogno, per evanescenza e per suggestione, nel climax di un’atmosfera sciamanica in cui trionfa una natura silente, marina e lunare, limpida di acque lustrali, questa poesia di Anna Vincitorio è un predicato lirico riferito alla poetessa, che evoca situazioni del passato, di un passato rivisitato nella magia del ricordo, vagamente in ostaggio a una melanconia insanabile. La scena rarefatta di questi versi orienta il lettore all’atmosfera tipica della poesia della mente» (p. 7).

Certo – la rarefazione del dettato conduce verso un orizzonte che non è quello puramente materiale del ricordo come recupero del passato. Ma è pur vero che la dimensione materiale, direi attonita, della scrittura di Anna Vincitorio resiste a ogni volatilizzazione, a ogni consegna al deposito sempre attivo delle astrazioni derealizzanti. Molte delle situazioni descritte in questa raccolta sono, infatti, spesso naturalmente atteggiate in senso realistico. Si consideri in questa dimensione la poesia non a caso intitolata fellinianamente AMARCORD. Si tratta di un testo un po’ lungo ma che vale la pena di leggere nella sua interezza per poterlo commentare adeguatamente:

«Era esploso improvviso / il tarlo dell’estate / Quel grattacielo isolato / umiliava con la sua mole / gli alberi fronzuti / Era caldo e / l’ombra compiacente / allungava / due sagome abbracciate / Un indistinto, peccaminoso odore / di giovinezza rubata / Il dondolare / di una barca sul mare / Lontane, le vele / variopinte degli ombrelli / Solo baci e silenzio / Lieve, sottile, senza corpo / si levava l’alba sul mare / Odore di legno, di cabine / In pochi a gioire / dell’ascesa del sole // Cosa di quelle giovani risate / nella penombra ombrosa / è rimasto? / Non si contano gli anni / al ritorno / nel pieno afrore dell’estate / Il fischio del treno / alla stazione, / i piedi stanchi / sull’asfalto molle / Ogni passo un ricordo / mentre si spendono parole / distratte / nel caldo di una piazza / dove piccioni annodati / alla fontana /devono l’acqua chiara / della giovinezza // Ricordo tutto / e ancora ti ricordo / lontano amore / di una lontana estate» (pp. 26-27).

Il taglio è netto, il ricordo chiaro e ancora limpido nella scrittura rigorosamente descrittiva degli eventi e nella dimensione a tutto tondo dei fatti evocati. Sembrerebbe una sequenza cinematografica (quella di un film che ricordi, anche se alla lontana, la storia di Scandalo al sole di Delmer Daves, ad esempio, o addirittura una vicenda giovanile come quelle descritte agli esordi della Nouvelle Vague) o una foto di gruppo dell’estate negli anni felici e dimenticati della fine Cinquanta-inizi Sessanta in Italia, anni in cui andare al mare significava ancora godere di una natura ancora non toccata dalle brutture dell’inquinamento o dagli scempi della cementificazione.

Eppure, AMARCORD va molto al di là del suo stesso titolo. Non è tanto o solo la visione del passato e il suo rammemorare un po’ assorto un po’ emozionato e molto sognante a contare e a pesare nel corso della lettura – quanto la sua presentificazione, il suo essere a fianco del presente e a riverberare su di esso che conto. Quell’ “indistinto, peccaminoso odore di giovinezza rubata” fa pensare. E’ il ricordo che si fa palese epifania dell’oggi e che vive anche di ciò che non è più nel presente. Cosa è rimasto di quel giorno d’estate, di quei baci giovanili, di quegli amori furtivi e un po’ timorosi di essere giudicati male e troppo rigidamente dagli altri? Forse niente di concreto o di duraturo se non la forza di transitare dalla coscienza del passato alle parole luccicanti di sole del presente. Il mare si configura qui come il simbolo di ciò che è stato e ha avuto un significato, che si è presentato agli occhi della mente e non è stato dimenticato e ha acquisito significato come simbolo della vita e dell’amore. L’acqua è il segno germinale del desiderio che vuole farsi destino.

«ASPETTO PAROLE. Veloce, sempre più aspro / il fischio del treno / carico di ombre / Caldi gemiti di una estate vermiglia / Rose carminio si spengono / nel vaso / Oltre la luce e l’alto muro / cosa si cela? / Aspetto parole / ma si affaccia un incendio / a lungo covato / L’ombra allungata degli alberi / faceva baluardo / e il suolo reggeva / Esile la trama / di un lontano amore / Ecco: calde folate di fuoco, / ambigui mostri / superano le siepi / affogate di silenzi / Il ventre della madre terra / è ricolmo di cenere / Volano bassi i falchi, / tremano le colombe / E’ tempo di migrare / Ti prepari viandante pellegrino / verso terre remote / Ma è pur sempre luce / violenta e netta / come lama corsa / Manca ogni filtro, / arriva diretta con raggi crudeli / Dove l’anima azzurra, / i sogni, l’immune speranza? / L’altare del lontano giuramento / è vuoto / Compiuto e scordato il sacrificio / Piovono frutti vermigli / dall’albero del peccato / Parole di marmo, / impetuosi sibili / di un impietoso vento / che tutto recide / come un’ascia / S’increspano le gelide acque / del padre Oceano / Grida rauche di marinai / dispersi nei gorghi / Affiorano fantasmi / tra candide frange di spuma» (pp. 16-17).

Come già in Sognando Estoril (Firenze, PuntoStampa, 2007), quello che conta nella scrittura di Anna Vincitorio è la capacità di forgiare emozioni e immagini con parole, attendere queste ultime pazientemente al varco e farne uno strumento di narrazione delle vicende della propria anima. Attendere le parole per dire ciò che non si può dire con le voci del presente o vagheggiarne la potenza nel mito sotto forma di Estoril, cittadina portoghese dalle notevoli attrattive balneari e culturali, dove la vita può diventare leggera e farsi dimora sognante delle aspirazioni mancate, cercare la poesia come il luogo da cui far affiorare i fantasmi del passato ed esorcizzare i mostri “ambigui” del presente, preparare l’esodo e muoversi verso il futuro – tutto questo emerge dalle immagini in fuga che costellano i suoi testi lirici e le movenze di danza del suo ondeggiare tra ieri, oggi e chissà quando. I fantasmi che affiorano tra le “candide frange di spuma” della pagina sono esorcizzati dal loro essere presenze tra le altre, tra i “falchi” e le “colombe” della vita come lotta e conflitto spietato, tra le “folate di fuoco” del desiderio di morte e il “lontano amore” rievocato con tenerezza e tremore – la poesia basta a trasformarli in presenze che non nuocciono e feriscono più perché sono state ammansite e ridotte a immagini lontane.

«LA SCONFITTA DELL’OMBRA. Atomi di luce / vincono l’ombra / Si incontrano / e si scontrano / in un connubio / d’anime / Non sensazione amara / dell’addio / ma lotta e la vittoria / che sconfigge l’ombra / Non silenzio, / parole sussurrate / messaggi d’amore / che giungono all’orecchio sopito / e filtrano / nel vitreo azzurro / dello sguardo // Non aver paura! / Non sei solo!» (p. 36).

La poesia di Anna Vincitorio provvede a illuminare il suo mondo interiore come una lampada è capace di vincere il cono d’ombra che essa stessa produce. La luce del sogno e del desiderio di vita diventa una chiave capace di aprire tutte le porte che impediscono di raggiungere la vita e di tuffarsi nel suo mare libero e incontaminato. Richiamo dell’acqua, allora, non è tanto timore della perdita assoluta di sé o tentazione del mälstrom dell’oggettività indistinta delle cose quanto capacità di utilizzare tutte le proprie risorse più riposte per dire no al dolore o all’incapacità di donarsi e per accettare di sé soltanto quella parte che il sole del desiderio di vivere ancora rischiara e consola.



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